SEX CRIMES: FENOMENO IN COSTANTE CRESCITA

Quale percorso per i SEX OFFENDERS: carcere a vita, castrazione chimica o riabilitazione?

Non tutti quelli che commettono reati di violenza sessuale hanno problemi psichiatrici. Però tutti hanno una patologia delle relazioni, di solito hanno avuto una infanzia non protetta: trascuratezza, episodi di violenza anche solo fisica, poca protezione dal mondo adulto. 

L’unico rapporto con l’altro che hanno conosciuto nella loro esistenza è quello predatorio, di sopraffazione, con bisogni molto primitivi che non hanno imparato a soddisfare nella maniera giusta.

La negazione è il tratto caratteristico che accomuna tutti i sex-offenders, un aspetto molto nototra gli studiosi, e la ricerca in questo campo cerca di capire se sia consapevole o meno, se investa tutta la personalità o solo certi aspetti.

Queste personalità sovente sono perfettamente dissociate: la negazione stessa è un sintomo della dissociazione che rende possibile avere, nella sostanza, due vite parallele. Per quanto sia difficile anche solo da immaginare, chi commette un abuso sessuale può essere al contempo una persona che in altre sfere della sua vita è funzionale. 

Non esiste uno standard condiviso che permetta di categorizzare la personalità del sex offender tramite dei criteri diagnostici ben definiti.

L’istituzione penitenziaria in questi ultimi anni ha provveduto a differenziare i detenuti secondo particolari “caratteristiche”: appartenenti alla criminalità organizzata, tossicodipendenti, collaboratori di giustizia. Altre volte, tale differenziazione viene consigliata da criteri “giuridico – morali”, è questo il caso dei c.d.“delatori”, degli “infetti” o di quanti vivono in una situazione di disagio psichico. Il gradino “più basso” di qualsiasi graduatoria delle tipologie, formali o informali, vede i violentatori, gli sfruttatori, “i mangiabambini” e quanti hanno abusato di minori o di donne. 

In una situazione di sovraffollamento quale quella attuale, risulta estremamente difficoltoso per l’Amministrazione assicurare la migliore gestione di soggetti con “caratteristiche particolari” che risultano essere invisi alla stragrande maggioranza della popolazione detenuta, la quale ha “rispetto” in ambito penitenziario anche per il pluriomicida ma non per colui che ha commesso “reati infamanti”.

In Italia le buone prassi di successo sono solo nelle carceri di Milano Bollate e a Roma Rebibbia: su 250 detenuti che hanno commesso reati sessuali solo 7 sono stati i casi di recidiva, una volta scontata la pena. La media internazionali delle recidive è del 17% ma potrebbe almeno dimezzarsi se tutti gli istituti penali attuassero i programmi di trattamento specifici per “sex offenders”. 

Oggi si utilizza molto il modello «Good lives model». Il metodo sperimentato con successo nell’Istituto Penitenziario di Bollate è di impronta cognitivo-comportamentale e proviene dalla tradizione canadese e statunitense. 

Tende a considerare chi ha commesso il reato come una persona che non ha gli strumenti né la volontà di soddisfare i suoi bisogni in una maniera pro-sociale”. Il trattamento è prevalentemente di gruppo, con incontri individuali.

In Louisiana sono gli stessi rei che, scarcerati, devono comunicare per posta la propria condanna al proprietario di casa, ai vicini, ai responsabili della scuola e dei parchi del quartiere, e devono render noto il loro indirizzo pubblicandolo su un quotidiano locale. Altre forme di notifica autorizzate: volantini, autoadesivi sul paraurti del veicolo appartenente al condannato, distintivo sugli indumenti. In California il registro dei condannati può essere consultato tramite un numero verde, o un cd-rom disponibile presso i commissariati, le biblioteche o le fiere delle contee. 

Secondo l’esempio dei pastori Mennoniti canadesi che a metà degli anni Novanta fondarono i «Circoli di Sostegno e Responsabilità», i detenuti considerati a rischio di recidiva, una volta scontata la pena, sottoscrivono un contratto della durata di un anno con tre volontari preparati dal C.I.P.M. Questo gruppetto si incontra settimanalmente in un luogo pubblico per chiacchierare di qualunque cosa, aiutando l’ex-carcerato a reinserirsi nella società.

Ogni individuo può essere fautore del cambiamento sociale.Segui sempre le 3 “R”:

Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni”

(Dalai Lama) 

Avvocato Immacolata T. Cecere
Criminologa
Esperta in Dinamiche Settarie, Satanismo, Crimini Violenti
Grafologa Forense
Coach e Counselor Bioetica
Presidente dell’A. P. S. – E.T.S. “Fermiconlemani”
Docente di Criminologia, diritto penale e diritto processuale penale

Cambiare le narrazioni per cambiare il mondo

Il delicato ruolo dei media nel racconto della violenza

É stato un raptus dopo l’ennesimo litigio”… “l’ho uccisa per gelosia”… “lui lavorava, lei stava dalla mattina alla sera al telefonino”…

Capita spesso di leggere o ascoltare nei media frasi e titoli come quelli succitati. “Un assassino – racconta l’avvocata Tiziana Cecere presidentessa dell’associazione antiviolenza Fermiconlemani, in un noto caso di cronaca di cui mi sono occupata, quello del brutale assassinio della giovanissima Noemi Durini, veniva chiamato ‘fidanzatino’ su tutti i giornali. Le vittime di violenza spesso vengono violentate una seconda volta”.

Con queste parole tonanti l’avvocata ci spiega il fenomeno della vittimizzazione secondaria delle donne. Cioè, le conseguenze dei titoli o racconti sbagliati: i media, alla stregua di tribunali, forze di polizia, assistenti sociali, possono rendere di nuovo vittima la donna, sbagliando terminologia, angolo di visuale, titolo, fotografia, associazioni o contestualizzazione.  

L’errore più comune è guardare al caso ancora troppo dal punto di vista di lui, citando giustificazioni che diventano moventi. E’ invece auspicabile nei casi di violenza adottare il punto di vista della vittima, in modo da ridarle la dignità e l’umanità che, in una cronaca quasi sempre morbosamente centrata sulla personalità dell’omicida, sono spesso perdute. Si parla ancora di raptus nei femminicidi e si cerca l’empatia col carnefice.Purtroppo da inizio anno si contano oltre 10 femminicidi al ritmo di uno ogni 3-5 giorni. In molti casi si sente spesso parlare di “raptus di follia” senta tenere in considerazione che a livello scientifico il raptus è riconosciuto solo nel 5% dei casi di femminicidio, nella maggioranza dei casi il delitto è figlio di una cultura patriarcale ben radicata. A volte la narrazione segue  lo schema secondo il quale  il carnefice era buono, poi arriva il fulmine a ciel sereno e lui ammazza la donna.  In altre circostanze  la ricostruzione della violenza spinge all’empatia verso quel pover’uomo che una donna egoista ha deciso di abbandonare. La vittima viene raccontata come una donna che si separa, toglie i figli al marito, i soldi, la casa. Il punto di vista, insomma, è quello dell’assassino.Il problema è culturale, affonda le radici in quella società patriarcale che è il terreno fertile della violenza. La soluzione si trova in un lungo lavoro di formazione: formazione a tutti i livelli e gradi; a volte, anche professionisti avveduti cascano nell’errore di condividere, senza usare filtri, stereotipi che provengono dal racconto di polizia, carabinieri, magistrati o altre categorie.Per tutte queste ragioni la chiave sta sempre nella formazione di tutte le categorie professionali che vengono a contatto con le vittime. Ed in questo senso la mia associazione, nell’ambito di un nuovo ed ambizioso progetto che vedrà schierate professionalità di altissima specializzazione di cui disponiamo, a breve offrirà percorsi formativi specifici per tutte le categorie coinvolte nel delicato alveo della prevenzione, del supporto ma anche della cronaca delle fenomenologie devianti.La violenza contro le donne, i bambini ed altre vittime vulnerabili pone questioni sociali, sanitarie e giuridiche che vanno affrontate da operatori esperti e qualificati. Il saper riconoscere, ascoltare, proteggere e curare le vittime di violenze richiede, infatti, una preparazione professionale specifica, al passo con le evoluzioni sociologiche del fenomeno e con gli strumenti di contrasto e di tutela che ne conseguono. È anche necessario che gli operatori possano sviluppare un know how attraverso il quale concorrere alle strategie di prevenzione primaria della violenza (e anche il racconto mediatico concorre a ciò), divenendo attori protagonisti della gestione complessiva del fenomeno. Un simile approccio richiede quindi di superare valutazioni e soluzioni semplicistiche che rischiano di adombrare la complessità del fenomeno e di suggerirne rimedi inadatti”.

Il team di Fermiconlemani

Ennesima aggressione ai danni di una giovane donna nel barese: il difficile rapporto fra prevenzione e repressione.

La presidentessa Tiziana Cecere e il vicepresidente Pierfrancesco Impedovo si soffermano sulla fallimentare strategia di contrasto alla violenza di genere e sul ruolo strategico della poco praticata prevenzione.

Questa mattina, 2 novembre,  si è consumata l’ennesima aggressione ai danni di una donna  a Monopoli, nel Barese. Poco dopo le 5, infatti, una giovane donna poco più che trentenne è  stata colta di sorpresa dall’ex fidanzato mentre stava uscendo di casa per andare al lavoro. L’uomo, un bracciante agricolo coetaneo della donna, l’ha aspettata fuori di casa per parlare. Pare che tra i due ci sia stata una discussione, poi l’aggressione. L’uomo ha impugnato un coltello e colpito l’ex con almeno 30 coltellate.

In Italia si conta, praticamente, un femmicidio ogni tre giorni, mentre non si riescono a contare gli episodi violenti a danno delle donne e non è solo questione di “ingente quantità”. Ossessione, possesso, prevaricazione, vendetta.

Bisognerebbe concentrare l’indagine criminologica proprio sui motivi, perchè il femmicidio non è solo l’uccisione di una donna in quanto donna, è qualcosa di diverso, più profondo, più camaleontico, più perverso e più problematico.

Quanta razionalità e calcolabilità vi è in queste tipologie di crimini e quanta, invece, irrazionalità e incontrollabilità vi si cela? 

Questa potrebbe essere una buona domanda per indagare l’efficacia preventiva della pena in relazione a tali crimini, dato che l’unica risposta che le istituzioni offrono alla risoluzione del problema è appunto quella sanzionatoria.

Con il termine femmicidio si suole indicare l’uccisione di una donna in quanto donna. Tale definizione venne coniata dalla criminologa Diana H. Russel per indicare una species del fenomeno socio-culturale largamente diffuso e che ha antiche origini, della violenza perpetrata contro il genere femminile il c.d. femminicidio. 

La piaga della violenza sulle donne non ha destato particolari cambiamenti nel corso del tempo, esiste dall’età arcaica e persiste in età moderna (si pensi al fenomeno storico-giuridico del patriarcato dal quale derivava il diritto per il marito o per il padre di correggere, anche e soprattutto con la violenza, la propria moglie o la propria figlia o all’istituto del matrimonio riparatore ex art. 544 c.p. con il quale si cancellava l’onore della famiglia violato consegnando la propria figlia o la propria sorella in moglie al suo aguzzino).

È mutato, invece, il grado di conoscenza del fenomeno, complice specialmente l’attenzione mediatica. Certamente esiste una stretta correlazione tra violenza di genere e situazioni relazionali (l’esito delle indagini OMS e della Convenzione di Istanbul convergono per lo stesso risultato: gli autori delle violenze più gravi sono prevalentemente i partner attuali o gli ex partner 62,7%) e nel caso specifico dei femmicidi, il grado di tale correlazione aumenta vertiginosamente (il 73,2% degli omicidi di donne sono compiuti in ambito familiare).

Tuttavia, nell’ottica di un’analisi compiuta del fenomeno in chiave culturale, sociale e criminale non ci si può fermare a tale correlazione, bensì ci si deve calare nel dinamismo dei ruoli sociali e studiarne il funzionamento. 

Non si uccide solo una donna in quanto tale, si uccide una donna in quanto madre, sorella, figlia, fidanzata, ex fidanzata, moglie, ex moglie.

Ecco, spostare il focus dell’indagine dal genere ai ruoli sociali assunti dalle donne, in contrapposizione ai ruoli assunti dagli uomini, consente di indagare il fenomeno dalla prospettiva relazionale specifica e in tal modo consente di avere una visione più centrata sui meccanismi relazionali dai quali emergono i conflitti e dai quali dipendono le reazioni violente

Infatti, raramente i femmicidi avvengono come episodi singoli, la maggior parte delle volte rappresentano il culmine della violenza innescatesi nelle dinamiche di cui sopra. Proprio la progressione della violenza è un fattore che può essere sfruttato in ottica preventiva perchè i femmicidi si possono prevenire ma, solo se si agisce in tempo utile e con gli strumenti adeguati a disinnescare l’escalation criminogena. Per raggiungere questo obbiettivo, è evidente che non basta agire sul piano sanzionatorio, prova ne sono i dati statistici negativi a fronte degli importanti interventi normativi susseguitesi nel tempo.

Infatti, tali tipi di interventi sono calibrati per agire in un tempo non funzionale allo scopo che ci si prefigge di raggiungere: la prevenzione non in senso generico ma, la prevenzione di questa particolare classe di reati.

Mai come nel caso del fenomeno della violenza di genere urge agire in maniera, non solo preventiva ma, soprattutto in maniera tempestiva proprio perchè si creano dei meccanismi di evitamento  e di abnegazione del pericolo causati proprio dai dinamismi relazionali. Questo vuol dire che, nella maggior parte dei casi, quando si giunge nella fase in cui la donna denuncia le violenze subite o comunque attiva richieste di aiuto, il fattore criminogeno si è già largamente sviluppato rendendo più complicato la realizzazione dell’effetto deterrente delle misure attualmente disponibili.

<<Condivido ogni singolo pensiero dell’analisi fatta dal collega Prof. Impedovo>>, tiene a sottolineare la presidentessa di Fermiconlemani avv.ta Tiziana Cecere, <<I numeri parlano chiaro e le statistiche sono sempre le stesse.  E ogni volta ci si interroga: cosa non ha funzionato? A che punto siamo nel contrasto alla violenza di genere? Il primo punto è la prevenzione. Se da più di 40 anni il numero dei femminicidi non diminuisce, vuol dire che le politiche sino ad ora pianificate non funzionano a sufficienza, soprattutto non si è mai investito seriamente nella prevenzione e nella formazione. È fondamentale comprendere la natura della violenza maschile alle donne. Non si tratta di un problema di sicurezza, bensì di un fenomeno culturale.  Anche le nuove misure di recente modifica al “Codice Rosso” possono essere guardate con uno sguardo bonario ma non prevengono il fenomeno, arrivano quando è già avvenuto. Una prevenzione “seria” dovrebbe prevedere da un programma di sensibilizzazione focalizzato in particolare modo nel contesto scolastico,  avvalendosi della collaborazione di realtà costituite da professionisti di alta specializzazione come la nostra che ben conoscono i fenomeni e sono in grado di mettere in campo strumenti di educazione emotiva alla non violenza, facendo leva sullo sviluppo, sin da tenera età, della capacità di costruire relazioni basate sui principi di parità, equità, rispetto, inclusività. L’educazione dei bambini e delle bambine al rispetto di genere e il contrasto alla violenza domestica non può essere efficace a meno che non si operi soprattutto sui modelli culturali che sottendono, promuovono, e riproducono disparità di genere nella società. L’azione di prevenzione deve articolarsi in percorsi volti all’esplorazione, all’identificazione e alla messa in discussione dei modelli di relazione convenzionali, degli stereotipi di genere e dei meccanismi socio-culturali di minimizzazione e razionalizzazione della violenza.

Tutto questo Fermiconlemani lo mette già in campo a titolo volontario e gratuito per la collettività nel corso di molteplici e sistematiche iniziative all’interno di istituti scolastici di ogni ordine e grado, grazie allo spirito di servizio di tutti noi professionisti che crediamo nel valore strategico della prevenzione, con la speranza che presto le istituzioni governative comprendano che si tratta dell’unica via efficace per affrontare il fenomeno>>.

Omicidio Lupelli: un altro importante riscontro per la nostra associazione nella lotta ad ogni forma di violenza

Confermate in grado d’appello condanna e risarcimenti alle parti civili.

Ieri, 26 ottobre, è stata resa nota la sentenza d’appello nei confronti di Saverio Mesecorto, imputato per l’omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e rapina ai danni della 81enne Anna Lucia Lupelli, trovata morta nella sua casa al quartiere Carrassi di Bari il 13 settembre 2021, trafitta da otto coltellate.

Dopo la parziale rinunzia della difesa ai motivi d’appello (fatti salvi quelli relativi alla misura del trattamento sanzionatorio), la Corte d’Appello di Bari ha condannato l’imputato reo confesso alla pena ridotta di 23 anni di reclusione, a fronte dei 27 inflitti in primo grado.

Confermati i risarcimenti alle parti civili tra le quali vi è la nostra associazione, patrocinata dalla socia Avv.ta Daniela Corrado a cui vanno i più sentiti ringraziamenti per l’importante risultato ottenuto a riprova dell’elevata qualità professionale del team legale coordinato dall’Avv.ta Serena Zicàri, anch’ella costituita quale patrocinante delle figlie della vittima.

La sentenza diverrà definitiva una volta decorsi i termini ( quarantacinque giorni dalla pronuncia) per proporre ricorso per cassazione, circostanza allo stato assai poco probabile.

<< Grazie alla professionalità, competenza e dedizione di tutta l’equipe legale della mia associazione che ringrazio – tiene a sottolineare la presidentessa di Fermiconlemani l’avv.ta Tiziana Cecere -, continuiamo a stare al fianco di tutte le vittime di violenza, dando il nostro contributo affinché riconquistino pienamente ciò che è stato loro tolto, moralmente, psicologicamente e legalmente. Questo nuovo risultato processuale, che arriva dopo numerosi altri, può considerarsi un ulteriore tassello nell’esperienza della nostra associazione, a costante valorizzazione del lavoro di prevenzione e contrasto ad ogni forma di violenza svolto quotidianamente sul campo, attraverso attività d’informazione, ascolto, assistenza legale, contatto con i servizi territoriali e dunque attraverso la creazione di una rete di concreto sostegno alle vittime. Riconoscere ad associazioni antiviolenza come la nostra la legittimazione a stare in giudizio quale parte danneggiata dai reati contestati al maltrattante e, contestualmente il diritto ad essere risarcite, è una conquista di altissimo valore civico al fine di ribadire che la violenza, perpetrata in qualsiasi forma o contesto, ha una ricaduta oltre che nella sfera individuale delle vittime, anche in quella collettiva, in un’ottica di responsabilità dell’intera società>>.

Qui i dettagli di cronaca: https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/bari/1441359/bari-addetto-delle-pulizie-uccise-un-anziana-condanna-ridotta-a-23-anni-in-appello.html

Nella mente del branco! Stupri e violenze di gruppo

Un seminario per riflettere e tracciare strategie di prevenzione

Il prossimo 19 ottobre presso la biblioteca comunale di Modugno, si terrà un importante seminario organizzato da Ikos Ageform in collaborazione con la nostra associazione dal titolo “Nella mente del branco!”.

L’incontro che inaugura la stagione formativa 2024, vedrà fra i relatori oltre alla prof.ssa Daniela Poggiolini monumentale fondatrice della scuola Ikos, la nostra presidentessa Avv.ta Tiziana Cecere in qualità di esperta criminologa.

Il seminario, per il suo alto valore scientifico, gode dei patrocini dell’Ordine degli Avvocati di Bari (che concederà 2 CFU), dell’Ordine degli Psicologi della Puglia e del comune di Modugno che lo ospita.

Il nostro socio, Prof. Pierfrancesco Impedovo criminologo e giurista, illustra la genesi di questa iniziativa.

L’idea di questo tavolo di approfondimento nasce dall’allarmante escalation di episodi in cui il “branco”  è protagonista; tutti ricorderanno l’orribile stupro – tanto per citarne uno recente – ai danni di una diciannovenne da parte di sette ragazzi, alcuni dei quali minorenni, avvenuto a Palermo lo scorso 7 luglio. Nel cellulare di uno dei presunti autori è stato ritrovato il video della violenza che, come si sa, ha fatto il giro del web.

Lo scandalo, la riprovazione e l’allarme che ne sono seguiti hanno portato tutti noi a porci delle domande, costringendoci a riflettere su cosa stia accadendo. Perché, purtroppo, quelli avvenuti a Palermo non sono fatti isolati. Quotidianamente sui media passano notizie di ragazze e donne abusate in gruppo durante momenti che dovrebbero essere di spensieratezza e divertimento. Sembra delinearsi come un’emergenza che finora abbiamo ignorato e riguarda in modo trasversale molti ragazzi, italiani e non, che vivono sul nostro territorio e che si verificano ovunque nel nostro Paese.

Partiamo da un punto. Alla base di tutte queste violenze vi è sempre lo scatenarsi di un comportamento filogeneticamente primitivo di dominio e predazione del maschio sulla femmina, dove sesso e aggressione sono connessi. Questa disposizione viene a noi dai primordi della nostra evoluzione ed è radicata come possibilità, non certo come determinazione ad agire, nella parte più antica del cervello maschile. La connessione tra sesso e violenza è quindi una possibilità per ogni maschio umano, che viene favorita ed esaltata dal gruppo. 

Sulla base di quanto appena detto, entra in gioco anzitutto un meccanismo di contagio emotivo, tipico del gruppo e anche della folla anonima; esso porta i componenti a vivere in modo automatico e riflesso la stessa attivazione emotiva, che è in questo caso di aggressione e sesso. Basta che uno del gruppo inizi una violenza, e gli altri si comportano mimeticamente allo stesso modo, in un crescendo sfrenato di brutalità privo di consapevolezza. Alcuni individui, per età e caratteristiche personali, sono maggiormente incapaci di opporsi al contagio emotivo: sono quelli poco autonomi dal gruppo, e anzi molto conformisti e dipendenti da esso, quelli poco abituati alla riflessione personale su di sé (cioè a chiedersi: “Che cosa sto facendo? Perché?”) e a scegliere in modo autonomo. Molti non sono nemmeno in grado di riconoscere le emozioni che stanno provando: le agiscono soltanto. In questa condizione la vittima e la sua sofferenza non vengono neppure viste e tantomeno colte; diventa quindi impossibile ogni condivisione empatica, che porterebbe a bloccare l’aggressione.

Per questi motivi il ruolo degli adulti, come educatori, è essenziale. Le cronache ben evidenziano la difesa amorale dei propri figli, attraverso il noto meccanismo di colpevolizzazione della vittima; è uno dei numerosi meccanismi di “disimpegno morale” che permettono di non mettere in discussione un comportamento e anzi di giustificarlo. Il ruolo dei padri e delle madri è decisivo, perché è in famiglia che il bambino impara fin da piccolissimo il rispetto, o al contrario il disprezzo, per le donne nella quotidianità della vita di tutti i giorni. Nella società italiana, dove le madri sono molto presenti, le donne svolgono un ruolo determinante nel favorire indirettamente, con il loro comportamento e i loro giudizi, la prevaricazione maschile, dalle forme più lievi a quelle più gravi. C’è un grande responsabilità in questo senso delle donne come madri. Non si tratta solo di saper porre dei limiti al proprio comportamento impulsivo, ma di essere in grado di vivere con l’altro sesso una relazione veramente umana, fatta di sentimenti e di relazioni individualizzate, ben lontana dalla sopraffazione.

Vi è un drammatico abbandono educativo sui temi della sessualità e degli affetti da parte sia della famiglia, sia della scuola. Occorre anzitutto riconoscere, superando le molte resistenze al riguardo, che esistono nei maschi disposizioni primitive alla prevaricazione che non vanno né legittimate né favorite dalla cultura. A questo riguardo, è necessario essere consapevoli del ruolo pervasivo e distruttivo assunto oggi dalla pornografia per gli adolescenti, in particolare per i maschi. La sessualità proposta dalla pornografia, anche quando non è manifestamente violenta, riduce la donna a oggetto del piacere maschile e favorisce di conseguenza i comportamenti aggressivi di sopraffazione.  

A partire dalla presa d’atto che la violenza maschile sulle donne è il frutto dell’interazione tra disposizioni biologiche e messaggi culturali che le sostengono, occorre favorire la capacità di coniugare sesso e affetti in una relazione personale basata sulla comune umanità. La famiglia e la scuola dovrebbero impegnarsi nell’educazione sessuale affettiva, che non può essere svolta solo dalla famiglia, soprattutto in adolescenza.

Stupro di Palermo: il fallimento educativo, la cultura della violenza, la disumanizzazione della vittima.

Un monito meditato della nostra socia onoraria Prof.ssa Paola Colarossi

Lettera a noi adulti

Sgomenta, leggo dei fatti di Palermo. Sbigottita leggo i commenti a tali fatti.

Immersi in una cappa di odio e di animalità, ottenebrata la mente, vomitiamo sentenze che a nulla servono se non a dare libero sfogo alla rabbia che serpeggia nei nostri cuori. 

Nulla si costruisce nella rabbia, nulla si risolve con la rabbia.

Questo, il mio parere.

Faccio l’insegnante da più di trent’anni; sono a contatto con una fascia particolarmente critica, quella che accompagna i bambini alle soglie dell’adolescenza. Negli anni ho visto gli effetti che la trasformazione sociale, consentitemi ma non riesco a definirla progresso sociale, sta avendo sui più giovani. 

Affidati precocemente alle cure di smartphone, comunità sociali e consolle tecnologiche, crescono soli. 

Crescono fragili e infelici e ognuno  di loro manifesta il suo malessere a modo suo. Alcuni, insicuri, diventano presto vittime. Altri arroganti, carnefici.

 Ho sentito dire ultimamente che le generazioni di “nativi digitali” che si stanno susseguendo, saranno sempre più flessibili, avranno capacità di logica più pronte e altro che non ricordo più. Sarà vero; non oso mettere in dubbio tali affermazione ma mi viene da aggiungere “ E quindi ?Questo farà di loro persone più concrete, più sicure di sé, persone emotivamente stabili? Perché se così non è, me ne frego della logica e della flessibilità che deriverà. Non arricchirà di un centesimo la loro vita.”  

Ma non vorrei dare l’impressione di essere contro la tecnologia; non è quello il punto. 

Il punto siamo NOI.  Noi Adulti, intendo.

Dove cavolo siamo? Come facciamo a non accorgerci che intorno a noi i ragazzi, pur di essere visti, considerati, sono disposti a tutto? Si tagliano le braccia. Le ho viste, una volta, le braccia di una mia alunna; sembrava che ci fossero disegnati una serie di pettini, tante sottili righe, una accanto all’altra. Tante. Le ho viste e le ho chiesto: “Cos’è?”

 “ Mi sono ferita a dei rami” mi ha risposto….ho convocato i genitori e loro si sono mossi. Una bellissima famiglia, a dire il vero, ma lei era fragile e imitava gli altri, si lasciava coinvolgere dalle Challenge di You Tube, un mondo apparentemente innocuo, ragazzine che insegnano a truccarsi, a vestirsi, che giocano a dare consigli su come conquistare il ragazzo che ci piace, giocano a fare le grandi – Che male c’è –

Diciamo noi. Non fanno niente di male.

Non fanno niente di male i genitori che postano video di bambini che raccontano fatti divertenti, scimmiottando i grandi, che dicono parolacce come se niente fosse,  bambine che ballano truccate  ed acconciate come se fossero ad un concorso per reginette di bellezza, quelli tanto amati dagli americani – Le avete mai viste quelle bambine? Vi siete mai chiesti che fine fanno? Da grandi?

Sgomenta assisto alla perdita di potere dei genitori nei confronti dei figli, che crescono troppo in fretta, che divorano fette di Vita troppo grandi per poter attraversare l’esofago e che finiscono per strozzarli.

Un giorno una bambina di undici anni mi diceva che l’amichetto, in classe, faceva cose “schiocche “ con il flauto e mentre me lo diceva mimava il gesto -undici anni-

” Che ne sai?” avrei voluto chiedere e invece tentavo di sdrammatizzare e lei insisteva  “ Professore’ …sono cose sciocche , cose sciocche” … e un altro , sempre undici anni, che scriveva al computer richieste sessuali esplicite e  molto ben definte, sperando che l’amichetta di banco leggesse. 

Undici anni. I genitori caddero dalle nuvole. “Chi glielo ha insegnato?” 

– Ha uno smartphone? – chiedemmo.

– Ceeeeerto – annuirono orgogliosi. Lo smartphone arriva a 10 anni , con la comunione, per la maggior parte dei nostri figli. Gli altri, quelli “ sfigati” devono sudarselo e  i loro genitori “ più che sfigati” devono lottare ogni giorno per conservare il loro punto di vista. Devono essere forti. Benedetti, loro. 

 E allora toccò a me spiegare che cosa si poteva fare con uno smartphone, con accesso illimitato ad internet, che la maggior parte di loro, manco lo sa che esiste il “ parental control” che impedisce l’accesso a certi siti.

 Ascolto storie allucinanti…

Per ore potrei parlare e raccontarvi di ciò che accade ogni giorno ai nostri ragazzi, mentre noi siamo tutti presi dai nostri impegni, dalla nostra vita, dai nostri problemi…per anni. Ma la chiudo qui.

Una sola cosa vi chiedo. Smettete di scomodare Dio i fulmini i castighi del cielo e quant’altro. 

Chiedetevi: “ Che sto facendo io?” 

 Io padre, io madre, io docente, io Prete, io politico , io chipiùnehapiùnemetta… io ADULTO.

“ Che stiamo facendo noi? Dove siamo, mentre i nostri ragazzi crescono SOLI ? ”

Con il cuore rotto, Paola Colarossi

Caso Noemi Durini, l’assassino, Lucio Marzo, in permesso premio trovato alla guida in stato di ebrezza: la nostra riflessione.

Lucio Marzo, 24enne di Montesardo (Alessano), detenuto per l’efferato omicidio di Noemi Durini avvenuto il 3 settembre del 2017 nelle campagne di Castrignano del Capo, è stato denunciato per guida in stato di ebbrezza dalla polizia stradale, dopo essere stato fermato a Cagliari.

Il giovane, era in permesso premio per svolgere un’attività lavorativa nel vicino comune di Sarroch. Gli agenti, impegnati in una ordinaria attività di controllo, gli hanno intimato l’alt mentre era alla guida di un’auto che aveva richiamato la loro attenzione per il rumore proveniente dal veicolo. Davanti all’intimazione dell’alt, Marzo ha provato a dileguarsi, prima in auto e poi a piedi, ma alla fine è stato bloccato.

Il 24enne è detenuto nel carcere minorile di Quartucciu (all’epoca del delitto aveva 17 anni), dove sconta una condanna definitiva a diciotto anni ed otto mesi e stava godendo di un permesso concesso dall’autorità giudiziaria perché potesse essere impiegato in un esercizio commerciale nel comune in cui aveva provvisoriamente dimora. Il provvedimento autorizzativo, tuttavia, indicava tra le varie prescrizioni anche il divieto di usare mezzi a motore e questo spiega il tentativo di fuga. Non solo: Marzo è risultato positivo al test con l’etilometro e per questo è scattata la denuncia a piede libero.

Nonostante alla nostra Corte Costituzionale e a quella europea dei Diritti dell’Uomo la pena detentiva inflitta ai minorenni non piaccia e la ritengano una specie di “tortura” da vietare nella civilissima Europa, essa non ha una finalità punitiva ma una funzione ben precisa, a mio giudizio ancora attuale, ossia impedire agli assassini di nuocere ad altre persone e, auspicabilmente, tornare in società dopo aver intrapreso un adeguato percorso riabilitativo che faccia loro ben comprendere il disvalore di quanto commesso”. Questo il commento a caldo della nostra presidentessa, avv.ta Tiziana Cecere. “Prima di cedere a sentimenti di facile indulgenza, sarebbe bene ricordare chi è Lucio Marzo: un freddo e lucido omicida che confessò di aver ucciso Noemi dopo averla percossa e sepolta viva sotto alcuni massi. C’è poi un risvolto assai inquietante di questo efferato delitto che da criminologa mi colpisce particolarmente e su cui tengo a richiamare l’attenzione: il contegno dei genitori del ragazzo che, dopo la confessione dichiararono alla stampa «Siamo orgogliosi di lui», avendo loro figlio sostenuto di aver agito per estinguere una presunta conflittualità con la famiglia che considerava Noemi una presenza negativa in grado di esercitare una cattiva influenza sul di lui. Il grave gesto compiuto dal Marzo -detenuto in permesso premio- denota che siamo ben lontani da quel processo di consapevolizzazione e rieducazione necessario per il suo reinserimento virtuoso nella comunità; non v’è poi da stupirsi se l’elargizione disinvolta di questi permessi premio, alla luce delle condotte tenute, susciti l’indignazione delle vittime collaterali e dell’intera società civile. Per questo a titolo personale e a nome della mia associazione,  esprimo tutta la solidarietà possibile ad Imma, divenuta nostra socia onoraria che, nonostante l’indicibile dolore patito per la perdita di Noemi -a cui si somma la sofferenza per questo sconcertante nuovo epilogo -, ha fortemente voluto sin da subito spendersi in un’incisiva attività di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne, incarnando a pieno la nostra missione di prevenzione; perché  la prevenzione e il sostegno nei contesti familiari e formativi  sono i soli strumenti efficaci per arginare futuri episodi di violenza giovanile e costruire una società più sicura e compassionevole. Ed è questo che Fermiconlemani instancabilmente promuove da anni, investendo le sue risorse migliori fatte di professionisti altamente specializzati e volontari, per la formazione, la salute mentale e il sostegno familiare, affinché si diffonda la cultura della non violenza, del rispetto delle regole e del rispetto reciproco nei gruppi di pari. Contano le azioni ma contano anche i simboli, per questo fra le nostre svariate attività vi è anche quella di promuovere la diffusione di panchine rosse, istallazioni permanenti contro la violenza sulle donne; l’ultima l’abbiamo inaugurata lo scorso giugno presso il villaggio vacanze Cala di Rosa Marina e, fra le tante, ve ne è una  a cui tengo particolarmente inaugurata a Bari l’otto marzo del 2021 ed intitolata proprio a Noemi”.

FEMMINICIDIO: TRA SPETTACOLARIZZAZIONI ED INTERVENTI LEGISLATIVI

Riflessioni giuridiche -e non solo- della nostra socia Patrizia Ciorciari, avvocata penalista.

Dal primo di gennaio ad oggi sono oltre 20 i Femminicidi accertati. Donne che vengono uccise perché donne per mano dei propri patners o ex patners.

E’ una violenza dilagante che travolge non solo le donne uccise, ma intere famiglie, si tratta di donne, di mogli, di madri, di figlie, donne giovani e meno giovani. Si tratta di vite spezzate.

Giulia Donato Martina Scialdone Giulia Tramontano, tutte donne uccise dai rispettivi mariti compagni o ex che non hanno accettato la fine della storia, o come nel caso che ha toccato i cuori di tutti  di Giulia Tramontano, uccisa insieme al figlio THIAGO perché il partner non RIUSCIVA A REGGERE IL PESO DI DUE RELAZIONI”.

E’ una scia di sangue che non accenna a fermarsi  e che dopo aver macchiato  il 2022, continua  a farlo anche nel 2023.

Tutti questi drammatici eventi mi inducono in quanto avvocata in prima linea nella lotta alla violenza di genere e come privata cittadina sensibile a queste tematiche  a due profonde riflessioni.

La prima riflessione riguarda l’incidenza che  questi gravi accadimenti hanno dal punto di vista legislativo. Sull’onda emotiva di quest’ultimo terribile femminicidio l’attuale legislatore ha annunciato una ulteriore  giro di vite sulle norme per contrastare la violenza di genere. Dal 2009 ad oggi numerosi sono stati gli interventi che il legislatore ha posto in essere per contrastare questo fenomeno dilagante. Dalla Convenzione di Istanbul  sulla prevenzione e la lotta alla violenza di genere ratificata dall’Italia nel 2013; alla legge 119/2013 che prevedeva norme di sicurezza ;alla più recente legge n. 69/2019 meglio nota come Codice Rosso che oltre ad introdurre nuove fattispecie autonome di reato ha inasprito ulteriormente le pene per gli autori di tali crimini contro le donne oltre che ad introdurre ulteriori garanzie per la persona offesa.

Ma se guardiamo alla scia di sangue che i femminicidi hanno lasciato dal 2019  (anno di entrata in vigore del Codice Rosso) ad oggi,  se  guardiamo a tutte le vite spezzate, spontanea sorge la domanda: ma davvero inasprire le pene serve a qualcosa? A leggere i dati del Viminale sui femminicidi la risposta  è NO.  Perchè da sola la legge non basta, se a tale inasprimento non si affianca un vero e concreto intervento del Legislatore nella direzione del cambiamento culturale.  Servono interventi ed investimenti che vadano nella direzione di miglioramento delle competenze trasversali; servono fondi che aiutino i CAV, le case Famiglia, servono fondi per aiutare tutte quelle donne che sono  riuscite a salvarsi dalla spirale di violenza a causa di un marito e/o compagno maltrattante a riprendere in mano la propria vita spezzata. Servono fondi da investire nelle scuole, perché l’unico vero autentico cambiamento parte da qui. Dalla educazione delle giovani menti. È necessario sensibilizzare educare ed insegnare serve educare i bambini e le bambine di oggi per non dover difendere poi gli uomini e le donne di domani Perché da sola la legge non basta. 

Una seconda riflessione riguarda invece il circo mediatico che si determina a causa della risonanza a volte esagerata che i media danno a questi eventi criminosi al solo scopo di fare odience.  La spettacolarizzazione di questi tragici eventi, con il MOSTRO sbattuto in prima pagina o con conduttori televisivi che  come novelli PM AVVOCATI E MAGISTRATI si sentono in diritto di fare indagini ricercare le prove ad emettere sentenze in quello che ormai è diventata la sede ufficiale dei Tribunali ovvero le piattaforme social  . E quindi quello a cui assistiamo sono delle vere e proprie spettacolarizzazioni dei femminicidi,  in cui si consente a conduttori televisivi, di sbattere il mostro  in prima pagina o di minimizzare la gravità del reato ai danni della donna, che diventa così due volte vittima: vittima del reato prima e della narrazione che si fa della vicenda poi, oppure di anticipare sentenze.

Il mondo della informazione gioca un ruolo importante soprattutto nella mediazione tra ciò che viene espresso in Tribunale,  unica sede deputata ad esercitare la giustizia e ciò che viene trasmesso alla opinione pubblica.

L’ambito giudiziario non è certo immune da pregiudizi e stereotipi, per questo è importante un uso responsabile dello strumento informativo. L’abuso e la violenza di genere vanno comunicate e vanno comunicate in modo consapevole perchè raccontare la violenza è il primo passo per combatterla. Ed in questo i media esercitano un ruolo fondamentale.

Le parole a seconda di come vengono usate   possono pesare come macigni per la loro intrinseca violenza, oppure possono aiutare a comprendere distanziare ed elaborare. L’errore principale da evitare nella narrazione di una violenza di genere è quella che viene definita  la romanticizzazione  che tende a svuotare il femminicidio di tutta la sua gravità. Attraverso una errata narrazione   Amore Possesso e Gelosia diventano giustificazioni atte a deresponsabilizzare il reo. Sovente si ascoltano nei TG o nei programmi di informazione frasi come  “Era innamorato, ha ucciso in preda ad un raptus, oppure se l’e cercata”. Quante volte ho ascoltato queste frasi  quante e tutte le volte mi ribello ad esse perchè così facendo si finisce con il trasformare il carnefice in vittima ed in vittima il carnefice  minimizzando la gravità del reato, causando la cd vittimizzazione secondaria: del carnefice prima  e delle istituzioni poi. A questo poi si aggiungano le interviste ai vicini ai parenti ai genitori agli amici del reo che ovviamente lo descrivono come “un uomo, un padre perfetto ed esemplare oppure un bravo ragazzo” Tutti questi commenti trasmettono un messaggio negativo che tende a sminuire la gravità dell’atto violento.

Ecco perché il ruolo dei media è fondamentale . Ma per evitare che i social si trasformino in Tribunali populisti è necessario che la stampa ed i media in genere mantengano un certo equilibrio, che si responsabilizzino dinnanzi a verità giudiziarie che vittimizzano le donne o che giustificano gli uomini colpevoli, altrimenti chi ne risentirà sarà in primis questo lungo cammino di sensibilizzazione alla violenza il cui contributo primario parte proprio da un uso appropriato dei media. Dobbiamo perciò essere noi il cambiamento che vogliamo perché la copertura mediatica dei femminicidi continui ad essere il volano che induca le vittime di violenza a chiedere aiuto.

Patrizia Ciorciari

Manuel, bambino di 5 anni, ucciso da un suv guidato da uno Youtuber: un dramma figlio dei nostri tempi

Un approfondimento sottile sulle ragioni alla base di una ineffabile tragedia del nostro socio fondatore Dott. Marco Magliozzi, psicologo, psicoterapeuta, esperto in PNL bioetica

Nella giornata di ieri (15 giugno 2023), si è consumato un terribile dramma: in una frazione di Roma, Casal Palocco, un suv guidato da un ragazzo di 20 anni, accompagnato da quattro amici, ha travolto una smart con all’interno una donna con i due figli piccoli.

Purtroppo, Manuel, bambino di 5 anni, è morto nello scontro.

Secondo le prime ricostruzioni, il ragazzo 20enne, risultato tra l’altro positivo al test sui cannabinoidi, alla guida di una super car Lamborghini Urus con ben 666 cavalli di potenza, lanciato a tutta velocità, si sarebbe scontrato contro la piccola city car, uccidendo il piccolo Manuel e ferendo la sorellina di 3 anni e la madre, tutt’ora in ospedale in stato di choc.

Gli Youtubers “The Borderline”

I ragazzi all’interno del suv fanno parte di un gruppo di Youtubers che prende il nome di “The Borderline”, un termine che fa fin da subito intendere il loro “vivere al limite!”.

Obiettivo di questi Youtubers è quello di pubblicare video nei quali si lanciano in determinate sfide, mettendo a repentaglio anche la loro incolumità.

Il gesto di ieri, ovvero guidare a tutta velocità una Lamborghini da 666 cavalli, ne è stato un esempio!

Questo gruppo è seguito online da ben 600mila followers.

Una tragedia figlia dei nostri tempi!

Matteo, il ragazzo 20enne alla guida del suv, rischia ora l’accusa di omicidio stradale, mentre rischiano anche i quattro amici che lo accompagnavano i quali, secondo alcuni testimoni, avrebbero addirittura continuato a filmare la scena dell’incidente con i loro telefonini, nonostante la tragedia appena avvenuta.

Un dramma davvero figlio dei nostri tempi: challenge sui social, che mettono a rischio non solo la vita dei protagonisti ma anche quella di altre persone che vengono, a loro discapito, coinvolte.

Giovani che, pur di provare sensazioni forti ed eccitanti (quelli che la criminologia definisce “sensation seeker”), si lanciano in queste sfide pericolose e allarmanti, sono l’esempio della piega, purtroppo negativa, della nostra società.

600mila followers, 152 milioni di visualizzazioni dal 2020, pur di osservare gesti spericolati e fuori controllo.

Qual è il senso di tutto ciò?

Youtube e i social come paradiso e inferno della nostra vita

Youtube, e i social in generale, contengono il meglio e il peggio di quello che la società possa offrire.

Contenuti altamente costruttivi, culturalmente appaganti e ricchi di informazioni utili, uniti, ahimè, anche ad altro genere di contenuti distruttivi, diseducativi e al di fuori di ogni etica e morale.

Dovremmo davvero chiederci, come mai, 600mila persone seguano ragazzi che si filmano mentre guidano una Lamborghini da 666 cavalli. 

Qual è l’insegnamento?

Riflessioni conclusive

In qualità di psicologo, e membro di un’associazione che si occupa da anni di prevenzione, sono costretto a effettuare una disamina psicoeducativa.
I ragazzi andrebbero educati all’utilizzo dei social, così da ridurre l’impatto di questi personaggi che veicolano contenuti completamente sbagliati.
Non solo: parliamo anche del codice stradale, che permette a un 20enne fresco di patente di poter guidare un suv dalla potenza di 666 cavalli.
Tante disattenzioni che, mi auguro, possano servire a chi di dovere per sistemare queste lacune sia educative sia legali.
Per ora, non possiamo far altro che dare un fortissimo abbraccio alla famiglia del piccolo Manuel, vittima incolpevole di questa tragedia.

Marco Magliozzi

Delitto di Giulia Tramontano: quando l’aggravante discrimina la vita

Il nostro socio Prof Pierfrancesco Impedovo, processual-penalista e criminologo, si sofferma sulla delicata questione di diritto sottesa al caso della povera Giulia.

Una donna incinta è una donna che ha un’altra vita con sé. C’è, dunque, qualcosa in più che entra in gioco. C’è qualcun’altro a cui viene fatto un torto. Il torto supremo di portar via la vita. Nell’omicidio di una donna incinta accade qualcosa di doppiamente orrendo.

In queste ore gira in rete un hastag “#duplice omicidio” per sensibilizzare l’opinione pubblica a chiedere di cambiare il capo d’imputazione a carico di Alessandro Impagnatiello (risultato tecnicamente impossibile rebus sic stantibus), reo confesso dell’uccisione della giovane Giulia Tramontano incinta al settimo mese di gravidanza. 

Ricordiamo che il barman è imputato di omicidio volontario aggravato, occultamento di cadavere ed interruzione di gravidanza non consensuale. 

La domanda rivolta alle scienze giuridiche è quindi semplice.

Uccidere una donna incinta è duplice omicidio? 

Negli Stati Uniti d’America sì. 

Il governatore Eric Holcomb ha infatti promulgato una legge che riconoscere anche il bambino nel grembo come vittima, nel caso venga uccisa la donna che lo porta.

Ciò vuol dire che sia che si tratti di omicidio volontario, che di omicidio colposo il reato è duplice.

La norma vale «in qualsiasi fase dello sviluppo» del bambino e non è rilevante se l’autore del reato fosse consapevole o meno della gravidanza. Il secondo omicidio comporta un aggravamento di pena da sei a vent’anni. 

Per il nostro ordinamento, invece un feto non è ancora una persona. E se ciò che uccidi non è una persona “tecnicamente” non è stato un omicidio.

In caso di un omicidio di una donna incinta è quindi considerato come omicidio di una persona -con delle aggravanti, certo- ma non un duplice omicidio. Perché per la legge è stata uccisa una sola persona. Il feto viene considerato a tutti gli effetti un “pezzo” della madre, non una vita autonoma. 

Questo almeno finché il feto vivo non si è distaccato, in modo naturale o indotto, dall’utero materno. O a partire dal travaglio, secondo interpretazioni più recenti e meno restrittive del concetto di “uomo” (cfr Cas. 27539/2019). 

Per differenziare quindi il reato da procurato interruzione di gravidanza a omicidio ci deve essere il passaggio dalla vita intrauterina a quella extra uterina con la manifestazione del primo atto respiratorio. In altre parole il feto deve nascere vivo.

Pertanto, la legge italiana attualmente non prevede il riconoscimento del duplice omicidio in caso di assassinio di una donna in gravidanza, indipendentemente dal mese di avanzamento della stessa.

Da qui il sorgere in queste ore di un vasto movimento d’opinione atto a promuovere, nelle nelle opportune sedi governative, la richiesta di un intervento legislativo, affinché venga riconosciuto il duplice omicidio quando la vittima è una donna in gravidanza in stato avanzato e giungere ad infliggere pene più gravi.

  • l’Italia, purtroppo, non è nuova a casi di questo genere: 2001, Silvia Cattaneo 26 anni di Arese, 2003 Monica Ravizza 24 anni di Milano, 2006 Jennifer Zacconi 22 anni di Olmo di Martellago, 2017 Irina Bakal 21 anni di Formeniga, solo per citarne alcuni. 

La posizione del diritto penale di fronte ai temi dell’inizio e della fine della vita umana è accomunata non solo dalle zavorre ideologiche che, almeno in certi casi, sono in grado di “appesantire” l’opera dell’interprete e/o del legislatore, ma anche, su un piano per certi aspetti opposto, dalla necessità di fare i conti con gli incalzanti progressi della scienza e della tecnica. 

Rispondere ai quesiti “quando si nasce?” e “quando si muore?” in una prospettiva giuridica è divenuta un’operazione particolarmente complessa, visti, da una parte, gli studi sempre più dettagliati sull’embrione e, dall’altra, le tecniche che consentono di prolungare le funzioni vitali di un individuo ben al di là di quanto fosse anche solo immaginabile ai tempi di compilazione del codice penale. 

Il codice penale, come s’è detto,  assume come discrimen di tutela della vita il momento della nascita, che segna anche l’applicazione della fattispecie di omicidio comune (art. 575 c.p.) o, in presenza di condizioni di abbandono morale e materiale, di infanticidio (art. 578 c.p.). La “nascita” deve essere intesa come il distacco del feto dall’utero materno, naturale o indotto: prima di questo momento possono trovare applicazione i delitti di aborto, dopo questo momento si apre la via all’applicazione dei delitti di omicidio. 

Una legislazione ragionevole, forse, dovrebbe anzitutto predisporre una tutela il cui grado di incisività corrisponda ai diversi stadi di sviluppo del concepito, in accordo con gli interessi di cui è titolare la madre (rectius, la donna), senza contare la necessità di delineare un sistema intimamente coerente di tutela penale della persona in limine vitae e in limine mortis: pur nella consapevolezza che l’“equilibrio perfetto” non è un obiettivo giuridicamente raggiungibile, specie quando a venire in considerazione siano gli interrogativi essenziali relativi alla stessa condizione umana (Cos’è la vita? Cos’è la morte?). 

Attendiamo fiduciosi.

Pierfrancesco Impedovo