Riflessione del nostro socio Prof. Pierfrancesco Impedovo
Il brutale assassinio dell’ambulante nigeriano a Civitanova Marche non ha giustificazioni e ci impone, ancora una volta, riflessioni attente su di noi e la società in cui viviamo.
Spetta naturalmente agli inquirenti ricostruire l’esatta dinamica di quanto accaduto. Sappiamo solo che Alika Ogorchukwu, 39 anni, venditore ambulante, è stato ferocemente aggredito e ucciso da Filippo Ferlazzo, 32 anni, salernitano d’origine, di passeggio con la sua compagna. Fermato e arrestato poco dopo delle forze dell’ordine, Ferlazzo avrebbe dichiarato che il motivo dell’aggressione sarebbero stati alcuni apprezzamenti fatti dalla vittima alla sua donna.
A noi interessa il dato sociologico sconcertante che emerge da questo episodio: nessuno dei numerosi presenti sulla scena è intervenuto per impedire che Filippo Ferlazzo uccidesse Alika Ogorchukwu. Nessuno!
La reazione istintuale è stata piuttosto impugnare lo smartphone e riprendere la scena. L’obbiettivo dello smartphone ha dunque “smaterializzato” la realtà, inserendo una sorta di filtro tra spettatori e protagonisti di quella violenza senza senso.
Viene da pensare, nella più ottimista delle ipotesi, che non abbiano saputo valutare in maniera lucida quelle che potevano essere le conseguenze di un’aggressione che, magari, sarebbe rimasta uno “spettacolino” immortalato in uno di quei tanti video “fai da te” che stanno ormai diventando una sorta di realtà parallela che non prevede conseguenze. Solo immagini.
Questa tragedia ci restituisce l’esatta misura di quello che stiamo diventando: una società non più civile, ma di monadi, nella quale un uomo in pericolo è lasciato a sé stesso e al suo destino perché abbiamo perso la capacità di sentirci noi stessi quell’uomo, e quindi di agire di conseguenza per proteggerlo. Ma anche una società dello spettacolo, per citare il titolo di un testo del 1967 del filosofo Guy Debord, evidentemente profetico.
- Una società nella quale la morte di un uomo non ci riguarda nemmeno se avviene sotto i nostri occhi, perché la prima reazione che mettiamo in atto è prenderne le distanze filmandola come se fosse un macabro show, in una sorta di meccanismo di alienazione “protettiva”. La perdita della tensione morale ad aiutare chi è in difficoltà, ci ha privati del nostro status di “umani”.
Qui non c’entrano il razzismo e la politica invocati dalla solita retorica mediatica. Ma c’entra invece molto il compimento di un atavico percorso di alienazione sociale al quale hanno senza dubbio contribuito anche i media, in un’orgia di immagini che raffigurano la violenza in ogni sua forma e il cui drammatico effetto è di neutralizzare ogni sentimento di umanità, conducendo ad una barbarie nuova e spaventosa: l’indifferenza. E questo vale per l’omicida, tanto quanto per coloro che non hanno ritenuto di doverlo fermare.
Continuamente esposti alla violenza e alla sua rappresentazione, stiamo finendo per abituarci a considerarla un fatto normale, un fenomeno che come un altro può accadere.
In una società dove tutto deve apparire per esistere, spettacolarizzare la violenza equivale a banalizzarla, così come trattare femminicidi, stupri e omicidi nel grande circo mediatico dei salotti tv del pomeriggio, inseriti a caso tra foto di VIP in vacanza e consigli per gli acquisti, equivale a fare della violenza un prodotto come un altro, che si vende e fa vendere.
La violenza rappresentata in modo spettacolare, sgargiante, quasi accattivante, sta finendo per compromettere la capacità di mantenere saldo il senso di realtà: non vi è infatti alcun dubbio che i presenti avrebbero potuto bloccare Filippo Ferlazzo, anche solo per la loro superiorità numerica, impedendo così la morte di un uomo.
Ma questo non è avvenuto, e dobbiamo chiederci quanto una percezione alterata della realtà, dovuta anche ad una narrazione ormai miserabile nei valori, abbia contribuito a far sì che nessuno abbia avuto l’istinto di impedire che un uomo morisse, per futilissimi motivi, in una via dello shopping davanti a decine di “spettatori”.