Violenze su anziani in una RSA di Manfredonia: l’essere umano è davvero capace di tali nefandezze?

Ce ne parla il Dott. Marco Magliozzi

Psicologo-psicoterapeuta, esperto in criminologia, PNL e EMDR

Socio fondatore di “Fermiconlemani”

Qualche giorno fa, in una RSA di Manfredonia in provincia di Foggia, quattro operatori socio-sanitari sono stati arrestati dalla Polizia con l’accusa di aver agito violenze fisiche e sessuali ai danni di alcuni anziani ospiti della struttura.

Ogniqualvolta leggiamo tali notizie, che vedono coinvolte persone innocenti e indifese, il nostro animo sobbalza e ci chiediamo come possano accadere tali tragedie.

Uno degli obiettivi dell’Associazione “Fermiconlemani” è quello di sensibilizzare i cittadini tutti sul tema della violenza, in ogni sua forma.

Questo articolo, nello specifico, non si pone come scopo quello di condannare o moralizzare sugli eventi accaduti (altri esperti si occuperanno, nel rispetto dei loro ruoli, di ottemperare a ciò), ma di fare un’analisi, il più possibile professionale e oggettiva, di tali dinamiche, così da offrire al lettore una visione dei fatti scientifica e scevra da condizionamenti.

Partiamo da una “semplice domanda”: l’essere umano è una creatura violenta per natura?

Antropologia, medicina, filosofia, psicologia, genetica, le scienze tutte, da secoli si domandano se l’essere umano possa racchiudere in sé istinti di violenza e aggressività.

Ahimè, la risposta è ormai certa: appartenendo alla classe animalia dei mammiferi prima che al genere homo sapiens, l’essere umano è capace, per sua natura, di agire violenza, di essere aggressivo, anche contro i propri simili e anche senza un “apparente” motivo. Considerando i numerosissimi casi di cronaca nera accaduti negli anni, non c’è più da meravigliarsi quando leggiamo o ascoltiamo notizie di tal genere.

Il meccanismo della sublimazione

L’essere umano, come detto, ha il naturale bisogno di esternare i propri istinti violenti e aggressivi. Grazie alla sua evoluzione, ha però imparato a gestirli e manifestarli in una maniera socialmente accettata, innocua e condivisa. Tale dinamica prende appunto il nome di sublimazione.

Alcuni esempi possono essere: l’attività sportiva, l’arte, l’impegno sociale o politico, la motivazione professionale e così via.

Talvolta, purtroppo, a causa delle eccessive frustrazioni e di alcune fragilità dell’Io, tali impulsi prendono il sopravvento e la persona non riesce a indirizzarli verso un qualcosa di opportuno.

Ecco che, ahimè, si manifestano violenze verso altre persone, molte volte del tutto innocenti e inconsapevoli di quello che sta accadendo.

La violenza è, molto spesso, conseguenza di un’infelicità interiore

Una persona equilibrata, mentalmente sana e appagata, gode del pieno funzionamento delle sue facoltà cognitive e dei propri meccanismi inconsci di difesa. È in grado, dunque, di gestire al meglio gli istinti primordiali (di cui sopra) e agire a favore del proprio bene e del bene comune.

La violenza agita (verbalmente o psicologicamente) è spesso conseguenza di un malessere interiore e di crepe strutturali nell’Io. Tali fragilità sono frutto di traumi, dell’educazione ricevuta, della cultura di appartenenza e del modo in cui l’individuo ha strutturato le proprie reazioni di difesa.

Violenze contro anziani: l’arma più grande è la prevenzione

Qualsiasi spiegazione psicologica non servirà mai per giustificare tali comportamenti violenti, nei confronti di persone innocenti e indifese. È giusto che gli autori di questi reati vengano sottoposti a processo e, se colpevoli, condannati secondo le leggi vigenti.

È giusto però permettere ai lettori di comprendere cosa spinga, inconsciamente, alcune persone a compiere tali atti deprecabili.

Gli operatori socio-sanitari, che si sono macchiati di queste violenze, molto probabilmente non godevano di una lucidità mentale, di un equilibrio sano tra conscio e istinti inconsci, di un sereno appagamento psico-emotivo (e sessuale), qualità indispensabili per poter essere a contatto con persone bisognose di cure e attenzione, come un anziano.

Il nostro monito, come Associazione, è quello di prevenire ogni genere di violenza e richiamare all’attenzione dei più questi accadimenti, con lo scopo di sensibilizzare e far sì che, per il futuro, ciò non debba più verificarsi.

Come? Assicurandosi della qualità, della formazione e dell’equilibrio psico-emotivo degli operatori socio-sanitari.

Bisogna dunque evitare, il più possibile, che questi operatori finiscano sotto stress, in burn-out o che vengano assegnati ruoli che richiedono empatia, amore per il prossimo e dedizione a persone non in grado di ottemperare tali qualità e magari a rischio crollo emotivo.

È necessario che gli operatori vengano valutati non solo da un punto di vista curriculare ma anche psicologico, che seguano degli specifici corsi di formazione e che vengano supportati psicologicamente da esperti esterni, così da monitorare costantemente il loro benessere.

Solo con la prevenzione è possibile far diminuire i casi di violenza.

IL FURTO D’IDENTITÀ DIGITALE DAI FAKE AL PHISHING

Il furto d’identità digitale è assimilabile al reato di sostituzione di persona previsto dal Codice Penale nel libro II Titolo VII all’art.494; attraverso questa fattispecie prevista dal legislatore del 1930 infatti, oggi è possibile includere anche le falsificazioni avvenute online.

Le modalità di questo reato sono molteplici, partendo da utenti che si fingono qualcun altro sul web per vantaggio personale, i cosiddetti fake, fino a veri e propri sistemi che alterano l’utilizzo di servizi online per vantaggio patrimoniale.

La norma, essendo stata riadattata al furto d’identità digitale e non essendo stata creata ad hoc, risulta generica e dunque fortemente influenzata dall’interpretazione della Magistratura.

Attualmente questa fattispecie prevede due falsificazioni alternative ovvero la sostituzione completa di persona, oppure l’attribuzione di un nickname, uno status o delle qualità personali false; risulta infatti punibile anche chi attraverso una falsa qualifica professionale organizza colloqui di lavoro per scopi personali.

Per comprendere in maniera completa questo reato appare essenziale fare delle comparazioni con il sistema e la dottrina statunitense, patria delle piattaforme digitali e di ciò che ne è correlato. In America, infatti, il furto d’identità digitale si divide in tre categorie, non associate a scopo di profitto economico: il catfishing, falsa identità contro una pluralità di utenti e il digital knidapping.

Il primo, da cui prende il nome anche il famoso programma tv di MTV, rimanda ad un vero e proprio “fake” dunque, alla condotta di chi “attira qualcuno in una relazione creando un personaggio online immaginario” (Oxford dictionary). Il catfish, attraverso l’inganno sui social network, raggira altri utenti intrattenendo relazioni virtuali senza mai svelare la propria vera identità, fisica e personologica.

La seconda categoria non sviluppa una relazione con un solo utente, ma interagisce con una molteplicità di utenti, in modo diretto o indiretto, anche attraverso degli intermediari a volte inconsapevoli della situazione creatasi.

Infine, con digital knidapping ci riferiamo a un utente che attraverso giochi di ruolo, quindi nascondendo la propria identità e non falsificandola, controlla altri individui non solo all’interno del gioco stesso.

Tornando alla legislazione italiana, identifichiamo questo reato come plurioffensivo, e procedibile d’ufficio, poiché esso lede la fede pubblica e una pluralità di utenti indeterminati: gli individui a causa di questi criminali, non riescono a fidarsi degli altri e non vivono serenamente i rapporti stretti online.

Analizzando gli elementi soggettivi del reato di furto d’identità digitale, notiamo come anche il tentativo è configurabile poiché la vittima potrebbe essere ingannata anche se il delitto non viene consumato, pur venendo in contatto con un profilo fake o altresì attraverso una mail sospetta di phishing.  

Inoltre, è riconosciuto il dolo specifico: l’autore, con coscienza e volontà, deve porre in essere l’atto al fine di arrecare un danno procurandosi un vantaggio patrimoniale o non patrimoniale.

In alcuni casi invece, potrebbe configurarsi un reato impossibile quando manca l’elemento offensivo: un utente potrebbe utilizzare dei dati diversi dai propri per la registrazione ad un sito o sostituire la propria identità con una inesistente; la giurisprudenza però a volte cerca di configurare anche questi come reati per la teoria della generalprevenzione.

Il furto d’identità digitale si ricollega ad altre due tipologie di illeciti sul web: il phishing e il cyberlaudering.

A livello normativo, il phishing non è categorizzato precisamente, ma viene interpretato considerando il reato-mezzo, la sostituzione di persona, e il reato-fine ovvero la frode informatica.

Attraverso la “mail esca”, inviata apparentemente da siti istituzionali al fine di aggiornare dati personali con il collegamento a un link, il cybercriminale ingannerà l’utente riportandolo su un’altra piattaforma creata ad hoc: ed è proprio così che si sviluppa l’identity theft succeduto dall’ identity abuse.

Spesso, a stretto contatto con il phisher potrebbe esserci il financial manager, ovvero colui che utilizza i proventi dei dati sottratti per il riciclaggio di denaro, ovvero il cyberlaudering. 

Analizzando questo reato dal punto di vista criminologico, invece, risulta importante dare attenzione alle tracce digitali che vengono lasciate sui sistemi di vittima e offender, importanti per la digital evidence e il profiling.

Gli elementi di prova devono essere suddivisi in tre fasi: l’identificazione dell’autore, attraverso lo studio dell’attacco e dell’obiettivo; l’analisi dei dati, attraverso la valutazione di motivazioni e skills, e infine il profiling vero e proprio.

Per identificare l’autore del reato si parte dunque dalla tipologia di attacco effettuato e dalla motivazione che lo ha spinto a scegliere un determinato sistema e determinate vittime.

È importante risalire all’utilizzo che il criminale ha fatto dei dati rubati ed alla complessità dell’attacco, i quali ci forniscono informazioni sulle competenze tecniche applicate ai cybercrimes. In base al metodo di aggressione, infatti, è possibile definire anche il livello di conoscenza dei linguaggi di programmazione, indagando l’utilizzo di codici già usati o innovativi.

Attraverso queste informazioni base, è possibile dunque, svelare i tratti caratteristici personologici e il progetto criminoso dell’offender.

Il profilo della vittima, invece, è molto più complesso da delineare: l’attacco potrebbe essere indirizzato verso utenti scelti o casuali oppure verso server ed enti istituzionali. Nel caso di singoli utenti scelti, essi potrebbero conoscere il criminale oppure potrebbero possedere simili caratteristiche attrattive. Altre vittime, invece, potrebbero essere selezionate casualmente da piattaforme istituzionali attraverso l’attacco a server di home banking, gestori telefonici e servizi di pubblica utilità.

La vulnerabilità rimane l’elemento comune di tutte le vittime, che essa sia dovuta alla disinformazione o alla mancanza di misure di sicurezza e così la prevenzione attualmente rimane l’arma più potente contro i cybercriminali.

Dunque, cosa fare concretamente per evitare d’incorrere in rischi come questo?

Il primo consiglio che sento di dare a tutti gli utilizzatori del web è di leggere attentamente prima di accettare qualsiasi tipo di autorizzazione e soprattutto di analizzare l’interlocutore che si incontra dall’altra parte dello schermo.

Se si nutre qualche dubbio rispetto alla mail ricevuta o alla richiesta di amicizia sospetta e non si riesce a capire la vera identità dell’utente, è sempre meglio farsi consigliare da un nostro caro o conoscente che è più preparato nell’utilizzo di pc e web.

Ognuno di noi dovrebbe supportare soprattutto anziani e bambini, che spesso per disinformazione, sono i più esposti a questi fenomeni.

Ricordiamoci: alcune volte, fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.

Claudia Colonna, assistente sociale, criminologa, socia di Fermi con le Mani

Più SOLI durante la pandemia

Il virus ha colpito in modo sproporzionato le persone anziane e quelle affette da patologie pregresse. In quasi tutti i Paesi, almeno il 90 % dei decessi per COVID-19 si è verificato tra le persone di età pari o superiore a 60 anni. In molti Paesi, circa la metà o più dei decessi per COVID-19 si sono registrati tra le persone domiciliate nelle residenze sanitarie assistenziali (RSA). In molti Paesi, la risposta iniziale al virus si è concentrata sulla protezione dei pazienti e dei lavoratori nelle strutture ospedaliere.

Solo in una fase successiva sono state adottate misure analoghe per proteggere i residenti e i lavoratori nelle RSA. In alcuni Paesi, c’è stato uno ritardo di almeno 2 mesi tra la segnalazione dei primi casi di COVID-19 e l’integrazione di linee guida per la prevenzione delle infezioni nelle RSA. In un quarto dei Paesi per i quali sono disponibili informazioni, ci sono volute due settimane in più per limitare le visite nelle case di riposo rispetto alle restrizioni imposte negli spazi pubblici.

La prima ondata della pandemia ha sottolineato l’importanza fondamentale di proteggere i pazienti anziani e le altre popolazioni vulnerabili dal COVID-19 per ridurre i ricoveri ospedalieri e i decessi.”

Secondo la WHO – Organizzazione Mondiale della Sanità, il problema dell’impatto della pandemia sulle persone over 60 non è stato ancora adeguatamente preso in considerazione. Sulla rivista scientifica The Lancet e sul Journal of the American Geriatrics Society vari articoli hanno segnalato i rischi dell’isolamento e della “trascuratezza” – che può configurarsi in certi casi come “maltrattamento” o “abbandono” – nei confronti delle persone anziane.

(Armitage and Nellums, 2020; Han and Mosqueda, 2020)

Questi dati evidenziano  la necessità di una forte attenzione alle problematicità psicologiche,comportamentali e sociali che la pandemia ha innescato,quali ansia,depressione e,solitudine,paura,incertezza,specie nei soggetti fragili.

La caratteristica di questa solitudine è quella dell’isolamento fisico, della “detenzione” ;l’umanità vi è costretta per sfuggire un contagio ,per il quale allo stato attuale pare che la vaccinazione di massa sia la cura più efficace. Ed è la prima volta che questa solitudine la si viva tutti nsieme,indistintamente.

Di certo l’attuale isolamento ha più che mai il sapore dell’attesa e della speranza di una rinascita. È un mondo nel quale gli abbracci, i baci, le strette di mano, le passeggiate, gli incontri sono messi al bando perché il virus coglie qualsiasi occasione per diffondersi.

Le persone anziane restano sicuramente le più vulnerabili e a rischio ,durante questa pandemia,individuando fattori di rischio diretti e fisiologici, quali il peggioramento di malattie croniche,e indiretti quali discriminazione a causa dell’età;mancanza di sicurezza,difficoltà nell’accesso ai servizi sanitari,assenza delle visite dei propri cari;maggiori difficoltà nel fare la spesa, acquistare farmaci …

Si ha paura,paura di contagiare,la paura che la crisi economica arrechi danni a chiunque,ai propri nipoti,figli.. Si ha la sensazione di perdita di controllo,la sensazione di sentirsi in trappola…

Cosa ci si aspetta dopo questa pandemia?

Sarebbe auspicabile un  cambiamento di “sguardo” ,che dia alle persone anziane la possibilità di essere il centro della propria salute fisica e mentale, nel rispetto delle proprie differenze culturali e sociali.

Tutti i dati dell’articolo sono ripresi dal sito del quotidiano sanita’.

Dott.ssa Laura Zingaro, assistente sociale, mediatore familiare, socia di Fermi con le mani