SEX CRIMES: FENOMENO IN COSTANTE CRESCITA

Quale percorso per i SEX OFFENDERS: carcere a vita, castrazione chimica o riabilitazione?

Non tutti quelli che commettono reati di violenza sessuale hanno problemi psichiatrici. Però tutti hanno una patologia delle relazioni, di solito hanno avuto una infanzia non protetta: trascuratezza, episodi di violenza anche solo fisica, poca protezione dal mondo adulto. 

L’unico rapporto con l’altro che hanno conosciuto nella loro esistenza è quello predatorio, di sopraffazione, con bisogni molto primitivi che non hanno imparato a soddisfare nella maniera giusta.

La negazione è il tratto caratteristico che accomuna tutti i sex-offenders, un aspetto molto nototra gli studiosi, e la ricerca in questo campo cerca di capire se sia consapevole o meno, se investa tutta la personalità o solo certi aspetti.

Queste personalità sovente sono perfettamente dissociate: la negazione stessa è un sintomo della dissociazione che rende possibile avere, nella sostanza, due vite parallele. Per quanto sia difficile anche solo da immaginare, chi commette un abuso sessuale può essere al contempo una persona che in altre sfere della sua vita è funzionale. 

Non esiste uno standard condiviso che permetta di categorizzare la personalità del sex offender tramite dei criteri diagnostici ben definiti.

L’istituzione penitenziaria in questi ultimi anni ha provveduto a differenziare i detenuti secondo particolari “caratteristiche”: appartenenti alla criminalità organizzata, tossicodipendenti, collaboratori di giustizia. Altre volte, tale differenziazione viene consigliata da criteri “giuridico – morali”, è questo il caso dei c.d.“delatori”, degli “infetti” o di quanti vivono in una situazione di disagio psichico. Il gradino “più basso” di qualsiasi graduatoria delle tipologie, formali o informali, vede i violentatori, gli sfruttatori, “i mangiabambini” e quanti hanno abusato di minori o di donne. 

In una situazione di sovraffollamento quale quella attuale, risulta estremamente difficoltoso per l’Amministrazione assicurare la migliore gestione di soggetti con “caratteristiche particolari” che risultano essere invisi alla stragrande maggioranza della popolazione detenuta, la quale ha “rispetto” in ambito penitenziario anche per il pluriomicida ma non per colui che ha commesso “reati infamanti”.

In Italia le buone prassi di successo sono solo nelle carceri di Milano Bollate e a Roma Rebibbia: su 250 detenuti che hanno commesso reati sessuali solo 7 sono stati i casi di recidiva, una volta scontata la pena. La media internazionali delle recidive è del 17% ma potrebbe almeno dimezzarsi se tutti gli istituti penali attuassero i programmi di trattamento specifici per “sex offenders”. 

Oggi si utilizza molto il modello «Good lives model». Il metodo sperimentato con successo nell’Istituto Penitenziario di Bollate è di impronta cognitivo-comportamentale e proviene dalla tradizione canadese e statunitense. 

Tende a considerare chi ha commesso il reato come una persona che non ha gli strumenti né la volontà di soddisfare i suoi bisogni in una maniera pro-sociale”. Il trattamento è prevalentemente di gruppo, con incontri individuali.

In Louisiana sono gli stessi rei che, scarcerati, devono comunicare per posta la propria condanna al proprietario di casa, ai vicini, ai responsabili della scuola e dei parchi del quartiere, e devono render noto il loro indirizzo pubblicandolo su un quotidiano locale. Altre forme di notifica autorizzate: volantini, autoadesivi sul paraurti del veicolo appartenente al condannato, distintivo sugli indumenti. In California il registro dei condannati può essere consultato tramite un numero verde, o un cd-rom disponibile presso i commissariati, le biblioteche o le fiere delle contee. 

Secondo l’esempio dei pastori Mennoniti canadesi che a metà degli anni Novanta fondarono i «Circoli di Sostegno e Responsabilità», i detenuti considerati a rischio di recidiva, una volta scontata la pena, sottoscrivono un contratto della durata di un anno con tre volontari preparati dal C.I.P.M. Questo gruppetto si incontra settimanalmente in un luogo pubblico per chiacchierare di qualunque cosa, aiutando l’ex-carcerato a reinserirsi nella società.

Ogni individuo può essere fautore del cambiamento sociale.Segui sempre le 3 “R”:

Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni”

(Dalai Lama) 

Avvocato Immacolata T. Cecere
Criminologa
Esperta in Dinamiche Settarie, Satanismo, Crimini Violenti
Grafologa Forense
Coach e Counselor Bioetica
Presidente dell’A. P. S. – E.T.S. “Fermiconlemani”
Docente di Criminologia, diritto penale e diritto processuale penale

Nella mente del branco! Stupri e violenze di gruppo

Un seminario per riflettere e tracciare strategie di prevenzione

Il prossimo 19 ottobre presso la biblioteca comunale di Modugno, si terrà un importante seminario organizzato da Ikos Ageform in collaborazione con la nostra associazione dal titolo “Nella mente del branco!”.

L’incontro che inaugura la stagione formativa 2024, vedrà fra i relatori oltre alla prof.ssa Daniela Poggiolini monumentale fondatrice della scuola Ikos, la nostra presidentessa Avv.ta Tiziana Cecere in qualità di esperta criminologa.

Il seminario, per il suo alto valore scientifico, gode dei patrocini dell’Ordine degli Avvocati di Bari (che concederà 2 CFU), dell’Ordine degli Psicologi della Puglia e del comune di Modugno che lo ospita.

Il nostro socio, Prof. Pierfrancesco Impedovo criminologo e giurista, illustra la genesi di questa iniziativa.

L’idea di questo tavolo di approfondimento nasce dall’allarmante escalation di episodi in cui il “branco”  è protagonista; tutti ricorderanno l’orribile stupro – tanto per citarne uno recente – ai danni di una diciannovenne da parte di sette ragazzi, alcuni dei quali minorenni, avvenuto a Palermo lo scorso 7 luglio. Nel cellulare di uno dei presunti autori è stato ritrovato il video della violenza che, come si sa, ha fatto il giro del web.

Lo scandalo, la riprovazione e l’allarme che ne sono seguiti hanno portato tutti noi a porci delle domande, costringendoci a riflettere su cosa stia accadendo. Perché, purtroppo, quelli avvenuti a Palermo non sono fatti isolati. Quotidianamente sui media passano notizie di ragazze e donne abusate in gruppo durante momenti che dovrebbero essere di spensieratezza e divertimento. Sembra delinearsi come un’emergenza che finora abbiamo ignorato e riguarda in modo trasversale molti ragazzi, italiani e non, che vivono sul nostro territorio e che si verificano ovunque nel nostro Paese.

Partiamo da un punto. Alla base di tutte queste violenze vi è sempre lo scatenarsi di un comportamento filogeneticamente primitivo di dominio e predazione del maschio sulla femmina, dove sesso e aggressione sono connessi. Questa disposizione viene a noi dai primordi della nostra evoluzione ed è radicata come possibilità, non certo come determinazione ad agire, nella parte più antica del cervello maschile. La connessione tra sesso e violenza è quindi una possibilità per ogni maschio umano, che viene favorita ed esaltata dal gruppo. 

Sulla base di quanto appena detto, entra in gioco anzitutto un meccanismo di contagio emotivo, tipico del gruppo e anche della folla anonima; esso porta i componenti a vivere in modo automatico e riflesso la stessa attivazione emotiva, che è in questo caso di aggressione e sesso. Basta che uno del gruppo inizi una violenza, e gli altri si comportano mimeticamente allo stesso modo, in un crescendo sfrenato di brutalità privo di consapevolezza. Alcuni individui, per età e caratteristiche personali, sono maggiormente incapaci di opporsi al contagio emotivo: sono quelli poco autonomi dal gruppo, e anzi molto conformisti e dipendenti da esso, quelli poco abituati alla riflessione personale su di sé (cioè a chiedersi: “Che cosa sto facendo? Perché?”) e a scegliere in modo autonomo. Molti non sono nemmeno in grado di riconoscere le emozioni che stanno provando: le agiscono soltanto. In questa condizione la vittima e la sua sofferenza non vengono neppure viste e tantomeno colte; diventa quindi impossibile ogni condivisione empatica, che porterebbe a bloccare l’aggressione.

Per questi motivi il ruolo degli adulti, come educatori, è essenziale. Le cronache ben evidenziano la difesa amorale dei propri figli, attraverso il noto meccanismo di colpevolizzazione della vittima; è uno dei numerosi meccanismi di “disimpegno morale” che permettono di non mettere in discussione un comportamento e anzi di giustificarlo. Il ruolo dei padri e delle madri è decisivo, perché è in famiglia che il bambino impara fin da piccolissimo il rispetto, o al contrario il disprezzo, per le donne nella quotidianità della vita di tutti i giorni. Nella società italiana, dove le madri sono molto presenti, le donne svolgono un ruolo determinante nel favorire indirettamente, con il loro comportamento e i loro giudizi, la prevaricazione maschile, dalle forme più lievi a quelle più gravi. C’è un grande responsabilità in questo senso delle donne come madri. Non si tratta solo di saper porre dei limiti al proprio comportamento impulsivo, ma di essere in grado di vivere con l’altro sesso una relazione veramente umana, fatta di sentimenti e di relazioni individualizzate, ben lontana dalla sopraffazione.

Vi è un drammatico abbandono educativo sui temi della sessualità e degli affetti da parte sia della famiglia, sia della scuola. Occorre anzitutto riconoscere, superando le molte resistenze al riguardo, che esistono nei maschi disposizioni primitive alla prevaricazione che non vanno né legittimate né favorite dalla cultura. A questo riguardo, è necessario essere consapevoli del ruolo pervasivo e distruttivo assunto oggi dalla pornografia per gli adolescenti, in particolare per i maschi. La sessualità proposta dalla pornografia, anche quando non è manifestamente violenta, riduce la donna a oggetto del piacere maschile e favorisce di conseguenza i comportamenti aggressivi di sopraffazione.  

A partire dalla presa d’atto che la violenza maschile sulle donne è il frutto dell’interazione tra disposizioni biologiche e messaggi culturali che le sostengono, occorre favorire la capacità di coniugare sesso e affetti in una relazione personale basata sulla comune umanità. La famiglia e la scuola dovrebbero impegnarsi nell’educazione sessuale affettiva, che non può essere svolta solo dalla famiglia, soprattutto in adolescenza.

Stupro di Palermo: il fallimento educativo, la cultura della violenza, la disumanizzazione della vittima.

Un monito meditato della nostra socia onoraria Prof.ssa Paola Colarossi

Lettera a noi adulti

Sgomenta, leggo dei fatti di Palermo. Sbigottita leggo i commenti a tali fatti.

Immersi in una cappa di odio e di animalità, ottenebrata la mente, vomitiamo sentenze che a nulla servono se non a dare libero sfogo alla rabbia che serpeggia nei nostri cuori. 

Nulla si costruisce nella rabbia, nulla si risolve con la rabbia.

Questo, il mio parere.

Faccio l’insegnante da più di trent’anni; sono a contatto con una fascia particolarmente critica, quella che accompagna i bambini alle soglie dell’adolescenza. Negli anni ho visto gli effetti che la trasformazione sociale, consentitemi ma non riesco a definirla progresso sociale, sta avendo sui più giovani. 

Affidati precocemente alle cure di smartphone, comunità sociali e consolle tecnologiche, crescono soli. 

Crescono fragili e infelici e ognuno  di loro manifesta il suo malessere a modo suo. Alcuni, insicuri, diventano presto vittime. Altri arroganti, carnefici.

 Ho sentito dire ultimamente che le generazioni di “nativi digitali” che si stanno susseguendo, saranno sempre più flessibili, avranno capacità di logica più pronte e altro che non ricordo più. Sarà vero; non oso mettere in dubbio tali affermazione ma mi viene da aggiungere “ E quindi ?Questo farà di loro persone più concrete, più sicure di sé, persone emotivamente stabili? Perché se così non è, me ne frego della logica e della flessibilità che deriverà. Non arricchirà di un centesimo la loro vita.”  

Ma non vorrei dare l’impressione di essere contro la tecnologia; non è quello il punto. 

Il punto siamo NOI.  Noi Adulti, intendo.

Dove cavolo siamo? Come facciamo a non accorgerci che intorno a noi i ragazzi, pur di essere visti, considerati, sono disposti a tutto? Si tagliano le braccia. Le ho viste, una volta, le braccia di una mia alunna; sembrava che ci fossero disegnati una serie di pettini, tante sottili righe, una accanto all’altra. Tante. Le ho viste e le ho chiesto: “Cos’è?”

 “ Mi sono ferita a dei rami” mi ha risposto….ho convocato i genitori e loro si sono mossi. Una bellissima famiglia, a dire il vero, ma lei era fragile e imitava gli altri, si lasciava coinvolgere dalle Challenge di You Tube, un mondo apparentemente innocuo, ragazzine che insegnano a truccarsi, a vestirsi, che giocano a dare consigli su come conquistare il ragazzo che ci piace, giocano a fare le grandi – Che male c’è –

Diciamo noi. Non fanno niente di male.

Non fanno niente di male i genitori che postano video di bambini che raccontano fatti divertenti, scimmiottando i grandi, che dicono parolacce come se niente fosse,  bambine che ballano truccate  ed acconciate come se fossero ad un concorso per reginette di bellezza, quelli tanto amati dagli americani – Le avete mai viste quelle bambine? Vi siete mai chiesti che fine fanno? Da grandi?

Sgomenta assisto alla perdita di potere dei genitori nei confronti dei figli, che crescono troppo in fretta, che divorano fette di Vita troppo grandi per poter attraversare l’esofago e che finiscono per strozzarli.

Un giorno una bambina di undici anni mi diceva che l’amichetto, in classe, faceva cose “schiocche “ con il flauto e mentre me lo diceva mimava il gesto -undici anni-

” Che ne sai?” avrei voluto chiedere e invece tentavo di sdrammatizzare e lei insisteva  “ Professore’ …sono cose sciocche , cose sciocche” … e un altro , sempre undici anni, che scriveva al computer richieste sessuali esplicite e  molto ben definte, sperando che l’amichetta di banco leggesse. 

Undici anni. I genitori caddero dalle nuvole. “Chi glielo ha insegnato?” 

– Ha uno smartphone? – chiedemmo.

– Ceeeeerto – annuirono orgogliosi. Lo smartphone arriva a 10 anni , con la comunione, per la maggior parte dei nostri figli. Gli altri, quelli “ sfigati” devono sudarselo e  i loro genitori “ più che sfigati” devono lottare ogni giorno per conservare il loro punto di vista. Devono essere forti. Benedetti, loro. 

 E allora toccò a me spiegare che cosa si poteva fare con uno smartphone, con accesso illimitato ad internet, che la maggior parte di loro, manco lo sa che esiste il “ parental control” che impedisce l’accesso a certi siti.

 Ascolto storie allucinanti…

Per ore potrei parlare e raccontarvi di ciò che accade ogni giorno ai nostri ragazzi, mentre noi siamo tutti presi dai nostri impegni, dalla nostra vita, dai nostri problemi…per anni. Ma la chiudo qui.

Una sola cosa vi chiedo. Smettete di scomodare Dio i fulmini i castighi del cielo e quant’altro. 

Chiedetevi: “ Che sto facendo io?” 

 Io padre, io madre, io docente, io Prete, io politico , io chipiùnehapiùnemetta… io ADULTO.

“ Che stiamo facendo noi? Dove siamo, mentre i nostri ragazzi crescono SOLI ? ”

Con il cuore rotto, Paola Colarossi

Caso Noemi Durini, l’assassino, Lucio Marzo, in permesso premio trovato alla guida in stato di ebrezza: la nostra riflessione.

Lucio Marzo, 24enne di Montesardo (Alessano), detenuto per l’efferato omicidio di Noemi Durini avvenuto il 3 settembre del 2017 nelle campagne di Castrignano del Capo, è stato denunciato per guida in stato di ebbrezza dalla polizia stradale, dopo essere stato fermato a Cagliari.

Il giovane, era in permesso premio per svolgere un’attività lavorativa nel vicino comune di Sarroch. Gli agenti, impegnati in una ordinaria attività di controllo, gli hanno intimato l’alt mentre era alla guida di un’auto che aveva richiamato la loro attenzione per il rumore proveniente dal veicolo. Davanti all’intimazione dell’alt, Marzo ha provato a dileguarsi, prima in auto e poi a piedi, ma alla fine è stato bloccato.

Il 24enne è detenuto nel carcere minorile di Quartucciu (all’epoca del delitto aveva 17 anni), dove sconta una condanna definitiva a diciotto anni ed otto mesi e stava godendo di un permesso concesso dall’autorità giudiziaria perché potesse essere impiegato in un esercizio commerciale nel comune in cui aveva provvisoriamente dimora. Il provvedimento autorizzativo, tuttavia, indicava tra le varie prescrizioni anche il divieto di usare mezzi a motore e questo spiega il tentativo di fuga. Non solo: Marzo è risultato positivo al test con l’etilometro e per questo è scattata la denuncia a piede libero.

Nonostante alla nostra Corte Costituzionale e a quella europea dei Diritti dell’Uomo la pena detentiva inflitta ai minorenni non piaccia e la ritengano una specie di “tortura” da vietare nella civilissima Europa, essa non ha una finalità punitiva ma una funzione ben precisa, a mio giudizio ancora attuale, ossia impedire agli assassini di nuocere ad altre persone e, auspicabilmente, tornare in società dopo aver intrapreso un adeguato percorso riabilitativo che faccia loro ben comprendere il disvalore di quanto commesso”. Questo il commento a caldo della nostra presidentessa, avv.ta Tiziana Cecere. “Prima di cedere a sentimenti di facile indulgenza, sarebbe bene ricordare chi è Lucio Marzo: un freddo e lucido omicida che confessò di aver ucciso Noemi dopo averla percossa e sepolta viva sotto alcuni massi. C’è poi un risvolto assai inquietante di questo efferato delitto che da criminologa mi colpisce particolarmente e su cui tengo a richiamare l’attenzione: il contegno dei genitori del ragazzo che, dopo la confessione dichiararono alla stampa «Siamo orgogliosi di lui», avendo loro figlio sostenuto di aver agito per estinguere una presunta conflittualità con la famiglia che considerava Noemi una presenza negativa in grado di esercitare una cattiva influenza sul di lui. Il grave gesto compiuto dal Marzo -detenuto in permesso premio- denota che siamo ben lontani da quel processo di consapevolizzazione e rieducazione necessario per il suo reinserimento virtuoso nella comunità; non v’è poi da stupirsi se l’elargizione disinvolta di questi permessi premio, alla luce delle condotte tenute, susciti l’indignazione delle vittime collaterali e dell’intera società civile. Per questo a titolo personale e a nome della mia associazione,  esprimo tutta la solidarietà possibile ad Imma, divenuta nostra socia onoraria che, nonostante l’indicibile dolore patito per la perdita di Noemi -a cui si somma la sofferenza per questo sconcertante nuovo epilogo -, ha fortemente voluto sin da subito spendersi in un’incisiva attività di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne, incarnando a pieno la nostra missione di prevenzione; perché  la prevenzione e il sostegno nei contesti familiari e formativi  sono i soli strumenti efficaci per arginare futuri episodi di violenza giovanile e costruire una società più sicura e compassionevole. Ed è questo che Fermiconlemani instancabilmente promuove da anni, investendo le sue risorse migliori fatte di professionisti altamente specializzati e volontari, per la formazione, la salute mentale e il sostegno familiare, affinché si diffonda la cultura della non violenza, del rispetto delle regole e del rispetto reciproco nei gruppi di pari. Contano le azioni ma contano anche i simboli, per questo fra le nostre svariate attività vi è anche quella di promuovere la diffusione di panchine rosse, istallazioni permanenti contro la violenza sulle donne; l’ultima l’abbiamo inaugurata lo scorso giugno presso il villaggio vacanze Cala di Rosa Marina e, fra le tante, ve ne è una  a cui tengo particolarmente inaugurata a Bari l’otto marzo del 2021 ed intitolata proprio a Noemi”.

Delitto di Giulia Tramontano: quando l’aggravante discrimina la vita

Il nostro socio Prof Pierfrancesco Impedovo, processual-penalista e criminologo, si sofferma sulla delicata questione di diritto sottesa al caso della povera Giulia.

Una donna incinta è una donna che ha un’altra vita con sé. C’è, dunque, qualcosa in più che entra in gioco. C’è qualcun’altro a cui viene fatto un torto. Il torto supremo di portar via la vita. Nell’omicidio di una donna incinta accade qualcosa di doppiamente orrendo.

In queste ore gira in rete un hastag “#duplice omicidio” per sensibilizzare l’opinione pubblica a chiedere di cambiare il capo d’imputazione a carico di Alessandro Impagnatiello (risultato tecnicamente impossibile rebus sic stantibus), reo confesso dell’uccisione della giovane Giulia Tramontano incinta al settimo mese di gravidanza. 

Ricordiamo che il barman è imputato di omicidio volontario aggravato, occultamento di cadavere ed interruzione di gravidanza non consensuale. 

La domanda rivolta alle scienze giuridiche è quindi semplice.

Uccidere una donna incinta è duplice omicidio? 

Negli Stati Uniti d’America sì. 

Il governatore Eric Holcomb ha infatti promulgato una legge che riconoscere anche il bambino nel grembo come vittima, nel caso venga uccisa la donna che lo porta.

Ciò vuol dire che sia che si tratti di omicidio volontario, che di omicidio colposo il reato è duplice.

La norma vale «in qualsiasi fase dello sviluppo» del bambino e non è rilevante se l’autore del reato fosse consapevole o meno della gravidanza. Il secondo omicidio comporta un aggravamento di pena da sei a vent’anni. 

Per il nostro ordinamento, invece un feto non è ancora una persona. E se ciò che uccidi non è una persona “tecnicamente” non è stato un omicidio.

In caso di un omicidio di una donna incinta è quindi considerato come omicidio di una persona -con delle aggravanti, certo- ma non un duplice omicidio. Perché per la legge è stata uccisa una sola persona. Il feto viene considerato a tutti gli effetti un “pezzo” della madre, non una vita autonoma. 

Questo almeno finché il feto vivo non si è distaccato, in modo naturale o indotto, dall’utero materno. O a partire dal travaglio, secondo interpretazioni più recenti e meno restrittive del concetto di “uomo” (cfr Cas. 27539/2019). 

Per differenziare quindi il reato da procurato interruzione di gravidanza a omicidio ci deve essere il passaggio dalla vita intrauterina a quella extra uterina con la manifestazione del primo atto respiratorio. In altre parole il feto deve nascere vivo.

Pertanto, la legge italiana attualmente non prevede il riconoscimento del duplice omicidio in caso di assassinio di una donna in gravidanza, indipendentemente dal mese di avanzamento della stessa.

Da qui il sorgere in queste ore di un vasto movimento d’opinione atto a promuovere, nelle nelle opportune sedi governative, la richiesta di un intervento legislativo, affinché venga riconosciuto il duplice omicidio quando la vittima è una donna in gravidanza in stato avanzato e giungere ad infliggere pene più gravi.

  • l’Italia, purtroppo, non è nuova a casi di questo genere: 2001, Silvia Cattaneo 26 anni di Arese, 2003 Monica Ravizza 24 anni di Milano, 2006 Jennifer Zacconi 22 anni di Olmo di Martellago, 2017 Irina Bakal 21 anni di Formeniga, solo per citarne alcuni. 

La posizione del diritto penale di fronte ai temi dell’inizio e della fine della vita umana è accomunata non solo dalle zavorre ideologiche che, almeno in certi casi, sono in grado di “appesantire” l’opera dell’interprete e/o del legislatore, ma anche, su un piano per certi aspetti opposto, dalla necessità di fare i conti con gli incalzanti progressi della scienza e della tecnica. 

Rispondere ai quesiti “quando si nasce?” e “quando si muore?” in una prospettiva giuridica è divenuta un’operazione particolarmente complessa, visti, da una parte, gli studi sempre più dettagliati sull’embrione e, dall’altra, le tecniche che consentono di prolungare le funzioni vitali di un individuo ben al di là di quanto fosse anche solo immaginabile ai tempi di compilazione del codice penale. 

Il codice penale, come s’è detto,  assume come discrimen di tutela della vita il momento della nascita, che segna anche l’applicazione della fattispecie di omicidio comune (art. 575 c.p.) o, in presenza di condizioni di abbandono morale e materiale, di infanticidio (art. 578 c.p.). La “nascita” deve essere intesa come il distacco del feto dall’utero materno, naturale o indotto: prima di questo momento possono trovare applicazione i delitti di aborto, dopo questo momento si apre la via all’applicazione dei delitti di omicidio. 

Una legislazione ragionevole, forse, dovrebbe anzitutto predisporre una tutela il cui grado di incisività corrisponda ai diversi stadi di sviluppo del concepito, in accordo con gli interessi di cui è titolare la madre (rectius, la donna), senza contare la necessità di delineare un sistema intimamente coerente di tutela penale della persona in limine vitae e in limine mortis: pur nella consapevolezza che l’“equilibrio perfetto” non è un obiettivo giuridicamente raggiungibile, specie quando a venire in considerazione siano gli interrogativi essenziali relativi alla stessa condizione umana (Cos’è la vita? Cos’è la morte?). 

Attendiamo fiduciosi.

Pierfrancesco Impedovo

Giulia Tramontano: un femminicidio e un figlicidio figli della società dell’Ego.

Il nostro socio Prof. Michele Colasuonno, psicologo e teologo, ci accompagna in una riflessione struggente e schietta sulla genesi di questi tragici avvenimenti.

Mentre mi trovo davanti al foglio bianco, cercando le parole, sentendo le emozioni, sfogliando ogni sorta di manuale o libro che mi aiutino a commentare quanto accaduto a Giulia Tramontano, la Tv è accesa e il Tg riporta ancora un femminicidio, quello di Pier Paola Romano.

Una sola domanda mi sorge: dove stiamo andando?

In questi giorni, anche per via del mio ruolo di psicologo responsabile del trattamento degli offender per l’associazione fermiconlemani, approfondivo lo studio di un testo e mi sono imbattuto in un capitolo dal titolo “Uomini che esercitano violenza sulle donne: una lettura alla luce della teoria dell’attaccamento”, e l’autore con competenza e senso realistico, riporta anche dati sociologici: da sempre, da quando è nata la società maschilista la violenza sulle donne, purtroppo aggiungerei io, è stata socialmente accettata e taciuta, ma che forse non arrivava mai a tanta crudeltà e violenza, per vari motivi; ma come l’autore anche io mi chiedo può questo giustificare uno stile aggressivo, violento, predominante nelle relazioni?

Oggi ci troviamo non solo davanti ad un femminicidio ma anche ad un figlicidio, sì perché Giulia era al settimo mese di gravidanza.

Dove stiamo andando?

Lascio ad altro spazio tutto quello che può riguardare la teoria dell’attaccamento (sarei troppo prolisso), e mi chiedo che fine ha fatto il Super-Io di freudiana memoria, dove sia finita la scala dei valori che governa la mente e l’agito di ogni persona; il narcisismo ci sta portando verso la soddisfazione esclusiva dei nostri bisogni a scapito della vita delle persone che ci circondano e che, in certi casi, sosteniamo di amare e, ancora di più, a scapito della vita di un nostro figlio.

Non c’è più tempo. Urge fare qualcosa che fermi questa mattanza di valori, questa mattanza di rispetto, la solitudine del narcisismo ci sta portando verso una disumanizzazione dell’Umano.

Da docente di una materia che mi permette di entrare in contatto con i miei alunni  senza l’ansia della fine del programma, ritengo che la scuola possa essere uno dei luoghi dove ancora si potrebbe insegnare l’umanizzazione, dove oltre alle tante materie assolutamente utili e indispensabili, si potrebbe scalfire il narcisismo maligno dilagante, ma per poter fare questo bisogna fare scelte concrete e audaci, forse politicamente poco produttive, ma umanamente molto utili. 

Tutto già detto forse, lo sgomento e il dolore irromperanno nuovamente alla prossima notizia che ascolteremo.

Ma ora lasciatemi fluire tutto il dolore per il piccolo Thiago, questo il nome del bambino che Giulia aveva in grembo:

Caro papà, quando ero nella pancia di mamma non ho mai avuto paura. Lì era bello; ad ogni passo che lei faceva mi sentivo cullato, il battito del suo cuore era una musica dolce che ascoltavo prima di addormentarmi. 

Poi, a volte, sentivo qualcosa che mi toccava un piedino, o il braccio: erano le tue mani papà. Potevo riconoscerle, perché a differenza di quelle delle mamma, si muovevano con un po’ di timore. Forse avevi paura di farmi male o di darmi fastidio. Invece a me piaceva. Mi sentivo felice. Quando hai iniziato a parlarmi, piano piano ho imparato a riconoscere anche la tua voce; che buffo eri quando mi cantavi quelle canzoncine, o quando mi raccontavi delle domeniche che sarebbero arrivate, dei giochi con la palla, della scuola, delle gite. Che ridere papà. Anche la mamma rideva, forse anche lei pensava che tu fossi buffo. 

Un giorno è successo qualcosa di strano; ho fatto una capriola e avevo tantissima voglia di nuotare…sentivo la mamma un po’ ridere e un po’ piangere. Poi ho riconosciuto la tua voce. Dicevi alla mamma che era bravissima, che stava facendo un buon lavoro. Dicevi che da lì a poco, io sarei stato tra le sue braccia e che doveva mettercela tutta. 

Quando finalmente sono nato, vi ho sentiti. Ho sentito la pelle della mamma e il sapore del suo latte. Ho sentito cadere sulla mia testa gocce di lacrime. Ma eccole li: le tue mani. Le ho riconosciute perché si muovevano con lo stesso timore di quando mi accarezzavi attraverso la pancia. E finalmente mi sono sentito al sicuro.

Da quel momento ti sei preso cura di me. Hai smesso di andare alle partite di calcetto, ora giochiamo insieme a bubusettete. Hai smesso di guardare i film di paura, ora insieme leggiamo tanti libri di fiabe. Hai smesso di andare a dormire tardi perché ora, quello che ti piace, è addormentarti abbracciato a me. Quando mi cambi il pannolino, sei sempre il solito papà buffo che ho sempre pensato! Le tue smorfie mi fanno ridere un sacco! 

Ora sono un po’ più grande. Sto crescendo papà, e non ho paura. So di potere scalare il divano, perché tu sei vicino a me. So che posso fare le corse, perché se cado un tuo bacio fa passare il dolore. So che posso combinare tutti i disastri del mondo, perché quando la mamma mi rimprovererà, tu sarai mio complice e dietro di lei mi farai l’occhiolino. 

Papà, promettimi una cosa: promettimi che anche quando ti arriverò alle spalle non smetterai di raccontarmi di mostri e pirati, non smetterai di fare capanne con sedie e coperte ma soprattutto continuerai a fare ridere la mamma. Grazie papà, per avermi regalato te stesso. 

Con tutto il bene del mondo, il tuo bambino.” – Maria Russomanno –

Ecco tutto quello che ti sei perso, Alessandro Impagnatiello. 

Prof. Michele Colasuonno

la lettera citata è tratta da: https://www.chizzocute.it/lettera-al-papa-da-un-neonato/

Omicidio Giulia Tramontano

“Ciò che c’è fuori è il riflesso di come siamo dentro”…

Le riflessioni della nostra socia fondatrice Carmela Milone, pedagogista e psicomotricista.

Purtroppo siamo vittime di un sistema distorto e che distorce il nostro modo di condurre la vita.

Di fronte ad avvenimenti come quello capitato alla povera Giulia, leggo la rabbia, la delusione per non avere certezze e sicurezza, specie da chi è preposto a questo compito.

Alla luce degli avvenimenti ci sarebbe da rassegnarsi ad un modo di procedere senza futuro, senza speranza. Questo mi ha fatto riflettere e cercando dentro sento di condividere il mio pensiero.

Sono entrata in associazione come socia fondatrice perché credo che io posso fare la mia parte per creare un mondo migliore, almeno nel mio quotidiano e credo che questo può espandersi e influenzare chi mi circonda. Parliamo troppo spesso di avvenimenti negativi, alimentiamo inconsapevolmente il negativo e non ce ne rendiamo conto.

Cerchiamo tutti la pace l’armonia, il bello ma quanto spazio e quanto tempo vi dedichiamo? Cominciando da noi stessi. Come parliamo a noi stessi? Come ci comportiamo con noi? Il mondo è il riflesso di ciò che noi siamo dentro.

Ci sono delle leggi universali che non possiamo prescindere: “Come è dentro così è fuori, come è sopra così è sotto…etc..”; quindi vediamo la guerra, la violenza, il malessere ma ci siamo chiesti quanto ci tutto ciò è dentro di noi?

Ci sono esperienze ed esperimenti che sono stati fatti, di cui non si parla, che dimostrano come cambiando la realtà personale l’ambiente intorno cambia.

Io sono qui in questo progetto perché credo che cambiando me stessa contribusco a cambiare la realtà esterna. Mettendo un seme di luce e occupandomi di farlo splendere sempre di più.
È un impegno, una fatica, avvolte ma non per questo voglio sottrarmi al mio scopo.
Sono sicura che questo si aggiunge ai tanti piccoli semi di luce che nel mondo, nell’universo brillano di già.
Abbiamo bisogno di fiducia, di pace, di amore e ciascuno può fare la differenza se non altro per onorare le vittime e far si che questi eventi non si ripetano.
Posso sembrare una illusa, ma credo fermamente che l’unione di intenti è molto potente. Per questo ci vogliono azioni che partano dal cuore.


Non vorrei dilungarmi ancora ma ho sentito di esprimere le mie emozioni e pensieri anche per tutte coloro che sono andate nell’oltre.. che ringrazio e benedico per il loro sacrificio.

Carmela Milone

“Pro-fessione” d’amore…

Una riflessione etica del nostro socio Prof. Michele Colasuonno, teologo e psicologo.

Dott.ssa Barbara Capovani – Pisa 2023

Dott.ssa Paola Labriola – Bari 2021

Cosa hanno in comune questi due nomi, entrambe uccise sul lavoro, entrambe psichiatre, entrambe uccise da pazienti.

Ripercorrere gli avvenimenti mi sembra una ripetizione, tanti gli articoli anche in rete che li descrivono dei dettagli.

Scrivere delle patologie dei due una ripetizione anche questa, cercare di cosa si tratta per quel che i manuali dicono, sono tanti i siti che li descrivono.

Scrivere di tutto quello che andrebbe cambiato per far funzionare le cose e della tanta burocrazia che non permette di lavorare come si dovrebbe, mi sembra inutile e non questo il posto giusto.

E allora ho pensato di riflettere su tre termini:
Amore (carità);
Rischio;
Passione.

amore, non solo amore per il lavoro, amore per il sapere, o una semplice “philia” generalizzata, ma amore inteso come carità, amore profondo, che muove ogni cellula di chi decide di mettere tutto se stesso al servizio di un certo tipo di persone, quelle che il dott. Andrioli definisce persone di vetro, persone che hanno bisogno di tanto amore, persone che per quanto la burocrazia ce lo imponga, non possono essere semplicemente incasellate in aride classificazioni per i sintomi clinici che manifestano. Persone che ogni volta decidono di sedersi su una poltrona di uno psichiatra o di uno psicologo, portano ogni loro paura, timore, angoscia, valore, idea, pensiero; ogni loro parte la mettono a nudo, e forse per la prima volta si sentono veramente ascoltati fino in fondo, vengono e ci aprono l’anima, ed è per questo che c’è bisogno di tanto amore, amore che supera ogni giudizio, amore che chiunque fa un lavoro del genere deve portare, provare e muovere in ogni istante.

Rischio, si, se è vero che in un lavoro del genere c’è bisogno di tanto amore, bisogna mettere in conto un pizzico di rischio, rischiare in una valutazione, rischio che quella persona di vetro sia troppo fragile e andando in frantumi ti colpisca con una scheggia di vetro. Rischio che metti in conto, rischio che accetti, e che possa oscurare la luce della passione per quello che si fa.

passione per un lavoro che ogni giorno si rivela nuovo e pieno di sfide: passione per le persone, passione per l’inoltrarsi nelle stanze più nascoste dell’anima, stanze che a volte neanche la persona stessa conoscere; passione per portare nel buio di quelle stanze una piccola luce.

Sì, per lavorare con le persone di vetro c’è bisogno di amore, rischio e passione ed anche se ciò che è accaduto non è giusto, non ha senso e non può avere una giustificazione, stare accanto alle”persone di vetro” è quello che tanti professionisti fanno ogni giorno, forse anche per far continuare a vivere nella memoria e nei cuori di tutti noi coloro che non ci sono più per amore della propria missione.

Michele Colasuonno

FERMICONLEMANI ANCORA PARTE CIVILE IN UN PROCESSO PER MALTRATTAMENTI

Oggi, avanti al GUP del Tribunale di Bari, si è celebrata la prima udienza preliminare dell’ennesimo processo a carico di un soggetto maltrattante.

L’uomo è accusato di aver, per oltre due anni, perseguitato due membri della sua famiglia costituitisi parte civile per il tramite dall’Avv. Vincenzo Rubino.

L’associazione Fermiconlemani, patrocinata dal procuratore speciale –l’avvocata e socia Francesca Lombardi-, ha avanzato a sua volta istanza di costituzione di parte civile a supporto delle vittime vessate da reiterate aggressioni fisiche e violenze psicologiche.

<<Grazie alla professionalità, competenza e dedizione di tutta l’equipe legale della mia associazione che ringrazio – tiene a sottolineare la presidentessa di Fermiconlemani l’avv.ta TizianaCecere -, continuiamo a stare al fianco di tutte le vittime di violenza, dando il nostro contributo affinché riconquistino pienamente ciò che è stato loro tolto, moralmente, psicologicamente e legalmente. Questa nuova iniziativa processuale, che arriva dopo numerose altre già ammesse, può considerarsi un ulteriore tassello nell’esperienza della nostra associazione, a costante valorizzazione del lavoro di prevenzione e contrasto ad ogni forma di violenza svolto quotidianamente sul campo, attraverso attività d’informazione, ascolto, assistenza legale, contatto con i servizi territoriali e dunque attraverso la creazione di una rete di concreto sostegno alle vittime. Riconoscere ad associazioni antiviolenza come la nostra la legittimazione a stare in giudizio quale parte danneggiata dai reati contestati al maltrattante, è una conquista di altissimo valore civico al fine di ribadire che la violenza, perpetrata in qualsiasi forma o contesto, ha una ricaduta oltre che nella sfera individuale delle vittime, anche in quella collettiva, in un’ottica di responsabilità dell’intera società>>.

Al via il processo per violenza sessuale a carico del Dr. Miniello

FERMICONLEMANI fra le associazioni che chiedono di costituirsi parte civile al fianco delle vittime

Giovedì 19 gennaio, innanzi al GUP presso il Tribunale di Bari dott. Ferraro, si è celebrata la prima udienza preliminare del processo pendente a carico del ginecologo barese Giovanni Miniello, chiamato a rispondere di plurimi episodi di violenza sessuale, tentata e consumata, ai danni di sue pazienti.

Molte vittime hanno formalizzato la costituzione di parte civile; analoga iniziativa è stata assunta da diversi centri e associazioni antiviolenza tra cui FERMICONLEMANI a mezzo del procuratore speciale avv.ta Daniela Corrado del foro di Bari, designata dalla Presidente dell’ente avv.ta Tiziana Cecere.

L’ammissione di tali costituzioni sarà discussa e decisa in seno alla prossima udienza, fissata per il giorno 16 febbraio 2023.

Presidentessa di Fermiconlemani Avv.ta Tiziana Cecere: “per noi è fondamentale agire all’interno del procedimento penale nella veste di accusatori privati affiancando le donne offese, perché la violenza è un reato che lede l’intera comunità.

Molto importante è sottolineare che la legittimazione attiva a costituirsi parte civile nei processi per crimini violenti della nostra associazione è stata riconosciuta già da diversi organi giudicanti in svariati altri processi, grazie alla corposa attività dell’associazione, documentata in atti al momento della costituzione, forte di anni di presenza sul territorio contro le discriminazioni e contro la violenza in ogni sua manifestazione, che si è consolidata anche grazie al lavoro sinergico con istituzioni e con altre associazioni, attraverso una rete sul territorio di sportelli di ascolto, assistenza legale-informativa e percorsi di prevenzione; un lavoro fatto di impegno e risorse proprie. 

L’associazione Fermiconlemani, nonostante non riceva fondi pubblici, è sempre in prima linea al fianco delle vittime di violenza, sostenendole e offrendo loro assistenza legale, psicologica e  di empowerment personale”.