Dal patriarcato alla società liquida
La violenza a danno delle donne è innanzitutto violenza contro ciò che da sempre si considera l’incarnazione della differenza.
In fondo la violenza, qualunque sia la sua genesi, punta sempre alla soppressione della libertà. La violenza sulle donne non fa eccezione.
La cultura patriarcale di cui la nostra società è certamente intrisa, ha da sempre coltivato questo intento liberticida a danno delle donne, ad esempio imponendo l’idea che l’unico destino “civile” della donna fosse quello di diventare madre. Ancora oggi, in fondo, non vi sono pari opportunità di affermazione sociale fra uomo e donna, sintomo tangibile del fatto che non ci siamo ancora completamente epurati da quei retaggi.
- C’è un romanzo, divenuto molto noto a seguito della sua traduzione filmica, “l’Amica Geniale” di Elena Ferrante, che ci restituisce un frammento –fra i tanti- in cui l’amica geniale appunto, bambina dall’intelligenza fertile e creativa, nel corso di una interrogazione a scuola, prevale su un proprio compagno di classe involontariamente umiliandolo. All’uscita di scuola, il fratello maggiore di quel compagno, appreso l’accaduto, si scaglia contro di lei con l’intento di ristabilire il primato ontologico del maschile sul femminile con un gesto emblematico: tentando di strapparle la lingua. Questo tentativo altro non è se non la rappresentazione essenziale della violenza dell’uomo sulla donna: non è solo drammaticamente colpire il corpo, ma è togliere alla donna il diritto di parola. E non è un caso che i femminicidi si moltiplichino in un tempo come il nostro in cui la donna non rinuncia a parlare, dove ella rivendica il suo diritto di avere una propria “lingua”.
Emerge, dunque, la drammatica mancanza nella nostra società non a caso battezzata dell’”amore liquido”, sempre più orientata alla dimensione virtuale degli schemi relazionali, di un’educazione sentimentale che abbia la finalità di intendere l’amore non come spinta appropriativa, ma come riconoscimento della differenza della “lingua” dell’altro.
D’altronde, la declinazione più significativa dell’amore è l’amore nei confronti della libertà dell’altro. Cosa farsene di un amore che sarebbe l’esito del terrore, di un’appropriazione violenta o di una tirannia.
Gli amanti vogliono essere amati in piena libertà, non a partire di una coercizione.
In molti di questi delitti troviamo sempre una fantasia gelosa o l’impossibilità di tollerare la fine di un amore una volta che la donna si dichiari libera dalla relazione. Questa liberà non è tollerata.
Questa tendenza a misconoscere la libertà dell’altro e non ad amarla, è il principio da cui scaturisce la violenza. La violenza è una profanazione dell’amore.
Vero è che la psicoanalisi ci insegna che in ogni amore ci sarebbe una spinta appropriativa nei confronti dell’altro: “sei mia, sei mio”. L’amore implica necessariamente una sorta di appartenenza. Ma noi non possiamo mai appropriarci dell’altro, perché altrimenti l’altro diventa una cosa, un oggetto, una proprietà, una “roba” come dice Mastro Don Gesualdo nel celeberrimo romanzo di Verga.
La violenza maschilista vorrebbe trasformare la donna in “roba”, in oggetto proprio. E qui è il punto in cui la spinta appropriativa che accompagna ogni amore, si trasforma in violenza.
Identificare, però, Il problema della violenza sulle donne nell’esistenza, come detto prima, di una cultura patriarcale che afferma un primato ontologico dell’uomo sulla donna, sarebbe miope perché non si può ignorare che esista anche una drammatica dinamica di “complicità” di molte delle vittime con i loro torturatori.
Si ricordi il caso di una “miss Caserta” di qualche anno fa, brutalmente massacrata dal suo fidanzato che, intervistata in ospedale, ancora agonizzante per le botte ricevute, quando le si chiede di commentare il suo fidanzato, lei, in modo struggente, confessa che il suo più grande desiderio sarebbe di averlo lÍ al suo fianco.
Qui tocchiamo qualcosa di molto enigmatico.
Nella violenza maschilista si nasconde sempre un impulso paradossalmente pedagogico.
Gli uomini violenti pretendono di insegnare alle donne come si deve essere donna; e molte donne che sono in difficoltà a reperire una propria identità, cedono alle manipolazioni come i burattini mossi dal Mangiafuoco di Collodi. Per la donna, infatti, il reperimento dell’identità personale è in continuo divenire: una reinvenzione costante, e farlo non è facile. Allora il rischio è quello di mettersi nelle mani di questi pedagoghi violenti che trasformano il rapporto in una relazione di potere sadomasochista dove, in cambio di una supposta identità, esercitano un potere sadico sulla loro vittima.
di Pierfrancesco Impedovo, criminologo, giurista, socio di Fermiconlemani