Ce ne parla il nostro socio Prof. Pierfrancesco Impedovo
Marco e Gabriele Bianchi colpevoli e condannati – in primo grado- all’ergastolo, per l’uccisione a calci e pugni di Willy Monteiro Duarte: questa la risposta dello Stato ad un atto di spaventosa, immotivata e incomprensibile brutalità.
È una vicenda che entra dentro ogni coscienza, un groviglio di ragione e sentimento che scompagina ogni certezza: apre le porte dell’istinto, nutrendo l’efferatezza inconsapevole (o, forse, troppo consapevole) del senso di vendetta. Siamo umani, del resto.
Un processo che ha avuto intorno a sé una attenzione spasmodica, anche perché tutto il Paese ha voluto essere accanto alla famiglia della giovanissima vittima, riconoscendone la dignità con cui ha affrontato una prova durissima. E anche le poche parole pronunciate dai genitori, dopo avere sentito il verdetto, sono state improntate a compostezza, sottolineando che la sentenza – giusta – non può certo colmare lo spaventoso vuoto lasciato dalla morte di Willy.
Per questo, sarebbe facile (e, in effetti, per molti lo è) sostenere che – in vicende come queste, nessuno avrebbe il diritto di invocare il diritto, perché a dolore deve corrispondere sempre dolore.
Ma è esattamente qui e adesso che si crea lo spartiacque: fuori o dentro il sistema penale.
È la diatriba degli opposti, la prova più dura: garantire la vittima e garantire il (presunto) reo. Che cos’è tutto ciò, se non il sacro dilemma del giusto processo?
Se il processo ha dimostrato, senza nemmeno l’ombra del dubbio, che i due fratelli hanno ucciso Willy, meritando la condanna, loro e dei due amici che li hanno fiancheggiati (Francesco Belleggia e Marco Piancarelli), bisogna anche ammettere che sui media la sentenza era stata già emessa.
Riproponendo ad ogni occasione, l’immagine da fanfaroni, e certamente violenti, di Marco e Gabriele Bianchi, l’opinione pubblica è stata portata per mano verso un giudizio di scontata colpevolezza, perché i due fratelli ”non potevano essere innocenti”.
Perché due giovani di cui si vedevano le stesse immagini, lo stesso ghigno, la stessa palese sfrontatezza, avevano già impressa sulla fronte e non sul petto – come la Hester descritta da Nathaniel Hawthorne – la ‘lettera scarlatta’ dell’infamia prima ancora della sentenza.
Il processo è un percorso impervio di uomini e di fatti, alla fine del quale si dovrebbe sublimare il più alto concetto del nostro patto sociale: la giustizia.
La pena afflittiva in sé, che dimentica la rieducazione e degrada a gogna mediatica, non può farne parte: quella è una giustizia estemporanea che non rispetta nessuno, che si chiami Abele o Caino non fa differenza.
Qui – è bene sottolinearlo per sgombrare il campo da ogni equivoco- non si sta affermando che il procedimento non sia stato condotto con equilibrio o correttezza, ma solo che il verdetto della gente è stato emesso ben prima della sentenza, perché altrimenti non poteva essere.
Per questo i giudici dovrebbero potersi estraniare da quello che esce dallo stretto perimetro del processo, ma sappiamo bene che così non è e quando il difensore dei fratelli Bianchi parla di un condizionamento mediatico dice cosa che tutti sanno, anche se in pochi lo ammetteranno mai.
Il (parallelo) processo mass-mediatico non ha solo una cifra culturale, ma allunga i suoi tentacoli sui diritti fondamentali e sul giusto processo.
Prof. Pierfrancesco Impedovo
Giurista, criminologo, socio di Fermiconlemani